Nella realtà ipercinetica, automatica, virtualizzata e aumentata nella quale oggi viviamo, è ancora possibile per il soggetto accedere alla propria individuazione, ovvero a quel «processo di differenziazione, che ha per meta lo sviluppo della personalità individuale e che per il fatto stesso che l’individuo non è soltanto un essere singolo, ma presuppone anche dei rapporti collettivi per poter esistere, non porta all’isolamento, bensì a una coesione collettiva più intensa e più generale»? E che tipo di affettività, sensibilità e socialità stanno sviluppando i giovani, che fino dall’infanzia passano più tempo davanti a uno schermo che assieme ai loro genitori e che imparano la loro lingua madre più da una macchina che da un essere umano, per venire poi sempre più integrati nel multiverso reticolare del web, attraverso video games, social media, giochi d’azzardo e pornografia, dialogando e imparando dalla IA e in un non troppo lontano futuro, collegando il proprio cervello a una macchina digitale, tramite un’interfaccia neurale impiantabile? Cosa succede se avere tutto a portata di click, instaura una temporalità schiacciata sul presente, sincronica, e come tale, inadeguata ad alimentare la diacronia sulla quale si fonda il processo della coscienza? E che ne è del desiderio, se la compromissione di quell’interfaccia tra anima e corpo, che è il grande Altro simbolico, attraverso l’impoverimento e la disarticolazione del linguaggio e il profluvio di immagini simulacro, porta a quel disimpasto pulsionale che è l’anticamera della psicosi? E dell’inconscio, del quale dovremmo forse annunciare la sparizione oppure la metamorfosi in un’entità digitale esternalizzata in un cloud? In queste condizioni, può ancora darsi una politica dei corpi nella quale quest’ultimi, interagendo tra loro, possano creare un legame fisico e mentale espansivo, che abbia l’ambizione di farsi portatore di cambiamento e di avere un’adeguata rappresentanza politica? Quali possibilità di privacy e libertà per il singolo e la collettività nel cosiddetto «capitalismo della sorveglianza», ma oggi dovremmo scrivere, «capitalismo computazionale», dove il controllo è invisibile perché legato alle infinite impronte digitali che lasciamo anche solo con uno smartphone in tasca, navigando nel web, o usando una carta di credito, sotto l’occhio vigile e ubiquitario di telecamere, che ormai si confondono con il paesaggio urbano, e la non libertà, non avendo più la necessità di essere coercitiva, viene proprio per questo scambiata per libertà? È ancora possibile tornare a interpellare il nostro desiderio singolare, sottraendosi agli automatismi e al controllo degli algoritmi, che lo anticipano e lo neutralizzano, standardizzandolo attraverso gruppi e segmenti di consumo, attraverso i quali il capitale alimenta se stesso, al prezzo della sua distruzione? È possibile, al di là di un nostalgico e impossibile ritorno al passato, un governo della tecnica che abbia l’obiettivo di disautomatizzare le nostre società, restituendo alla persona, un quanto mai necessario e fertile tempo dell’otium?
Ma condizione di una riattivazione possibile del desiderio non è in primo luogo il cessare di definire “intelligenza” artificiale le macchine a calcolo, pure sorprendenti, della rivoluzione digitale? Non è la tesi che proclama essere l’informazione profondamente diversa da ciò che è invece interpretazione? Proprio nella misura in cui la vera conoscenza umana è sempre un processo che parte da una emozione, da un affetto, con il compito di elaborarlo nel concetto, quale luogo di confronto tra mondo pulsionale interno e mondo sociale esterno? Non è cioè il rifiuto di una ontologia dell’informazione che pretende di dire che tutta la realtà, la stessa materia, non è altro che una rete di informazioni e che lo stesso cervello umano sarebbe riducibile a un sistema informatico di elaborazione e calcolo di dati? Perché solo una deantropologizzazione della cosiddetta Intelligenza Artificiale e la sua riduzione a strumento (assai spesso di notevolissima efficacia) potrà impedire un rispecchiamento dell’essere umano nelle macchine del calcolo e inaugurare con ciò, reciprocamente, una liberazione del desiderio e dell’affetto che non hanno nulla a che vedere con la composizione e associazione di parti caratteristica di un ente macchinico.
In effetti quello a cui ci sollecita oggi la nuova psicopatologia di massa di una mente esteriore a sé medesima è provare a concepire, secondo un’istanza utopica ma pure presaga di anticipazioni future, istituzioni sociali che, nel mentre siano luoghi di produzione di beni e servizi, producano nello stesso tempo anche pratiche di riconoscimento, ossia modalità di comportamento che siano di sollecitazione e di facilitazione al riconoscersi individuale. Un’etica psicoanalitica cioè che ci solleciti a concepire istituzioni del riconoscimento generalizzate alle più diverse sfere del vivere e dell’agire sociale dove l’agire e il produrre l’oggetto (quale che sia la sua natura) sia contemporaneamente un agire e produrre il soggetto. Ma dove appunto tale produzione di soggettività individuale sia messa in opera e facilitata dal riconoscimento che di essa sarà in grado di fare una individualità collettiva basata su valori comunitari di solidarietà e non di individualismo possessivo e concorrenziale.
Si pensi in tal senso a che cosa potrebbe significare una istituzione scolastica fondata sulla centralità del “gruppo classe”, quale società di adolescenti che possa sperimentarsi in una comunità che sia di differenziazione dal mondo adulto e, insieme, di ricerca da parte di ognuno della propria identità. Una scuola cioè in cui il “conoscere” potesse andare di pari passo con il “riconoscere”, o meglio con il riconoscer/si, e in cui quindi il percorso di assimilazione della cultura generata dall’umanità nella sua varia e lunga storia andasse di pari passo con la scoperta e la cultura del proprio Sé. E in cui appunto il mutuo riconoscersi dovrebbe essere consentito da un’esperienza di vita ancora non attraversata dalle relazioni astraenti del denaro e delle prestazioni di lavoro.
Potremmo dunque concepire nuove configurazioni di relazione sociale e intersoggettiva così come di relazione infrasoggettiva al più proprio Sé d’ognuno, in cui i due termini fossero costantemente mediati, senza che l’uno abbia a prevalere sull’altro bensì riconosciuti, nel loro essere un’endiadi, come il luogo del senso e del valore? Concepire cioè configurazioni utopiche del futuro in cui critica dell’economia politica e critica dell’economia libidica coniugassero insieme socializzazione dell’eguale e riconoscimento del diseguale?
Il convegno, che avrà luogo l’8 e 9 ottobre 2024, presso il museo M9 di Venezia-Mestre, proverà a rispondere a queste e ad altre domande, indicando una direzione per una possibile fuoriuscita dalla «governance algoritmica», in vista di una individuazione del soggetto che ne restituisca la sua singolarità.
L’iniziativa, della durata di due giornate, si articolerà attraverso quattro tavoli di discussione, con la presentazione dei contributi dei relatori e un dibattito con il pubblico e gli studenti. L’obiettivo è quello di fissare alcuni punti condivisi di analisi critica e di indicare una direzione che restituisca profondità e consistenza alla soggettività individuale e collettiva.