Manifesto decentraMenti

Ci dobbiamo far carico dell’infondatezza della nostra origine, della nostra mancanza di origine, di quel buco che abbiamo scambiato per il nostro centro, sigillandolo con l’illusione dell’Io. La vita dell’uomo comincia e si ferma sempre per strada, non raggiunge mai un’ultima meta, in quanto la finitezza del tempo che gli è dato da vivere e la metonimia propria del suo desiderio, che ne sposta sempre avanti ogni possibile compimento, fanno si che egli non si dia se non come in- compimento. Ed è proprio questa incompiutezza del soggetto, che rende possibile quel processo di individuazione, che si declina necessariamente nella domanda dell’origine.

DecentraMenti, uno spazio di ibridazione culturale , nel quale il pensiero si accorda alla singolarità di ciascuno, all’interno di una dimensione di congiunzione intersoggettiva.

DecentraMenti, un luogo di riflessione aperta, di de-costruzione e ri-costruzione generativa, nella direzione di una differenza che, per innescare un mutamento a partire dal presente, non può che essere ontologica ed escatologica.

DecentraMenti, un osservatorio sui mutamenti antropologici, della psiche e delle relazioni sociali, indotti dagli artefatti sociotecnici, in cui storicamente l’essere umano si proietta, attraverso i quali conosce, si ri-conosce e si modifica, segnatamente oggi quelli digitali, un sismografo che registra le fibrillazioni negli habitat naturali e artificiali, per interpretarle e per indicarne prevenzione e cura.

DecentraMenti, un laboratorio di pensiero performativo, nel quale il linguaggio si fa prassi immediata, perché è convinzione di chi scrive che sia il significante a supportare l’identità dell’oggetto. Rifiutando una teoria della designazione in cui il referente sia dato semplicemente per assodato, per volgersi a una teoria della produttività della nominazione, della sua dimensione performativa, in cui la nominazione stessa produce retroattivamente l’oggetto.

DecentraMenti, per pensare alle spalle del proprio ego, per non incollarvicisi sopra, per de-centrarsi e de-situarsi dal centro che esso occupa, allargando il campo interiore del soggetto, fino al punto da contenerne lo stesso io, tra-guardando quest’ultimo da una posizione ec-centrica, dalla quale esso risulta ridimensionato e maggiormente poroso, ovvero più aperto alla relazione con l’Altro.

Decentramenti parte dalla riflessione su come una delle ragioni di sofferenza dell’essere umano sia legata alla rigidità del suo ego, una costruzione immaginaria, come scriverebbe Jacques Lacan, sulla quale molti poggiano le fondamenta della propria identità. Rigidità dell’ego significa fermo immagine su di un io ideale, che fissa l’ego a un’immagine di sé, sempre sfuggente e sempre irraggiungibile, in quanto riflessa, che allo stesso tempo blocca ogni possibile trasformazione del soggetto. Un rigidità che porta con sé una postura psichica narcisistica, attraverso la quale l’ego ricerca continuamente un altro che gli rimandi, come uno specchio, l’immagine di se stesso, polarizzata dall’Io ideale.

Il narcisismo lascia in ombra, spesso con atteggiamento ostile, chiunque non ci rimandi questa immagine ideale di noi stessi, alla quale l’io anela a congiungersi. Immagine, che conduce il soggetto umano a instaurare rapporti mimetici e speculari, declinando amore e amicizia secondo legami patologici ed esclusivi, tali da configurare una diade indirizzata verso lo stato fusionale dell’Uno. L’Uno, una volta solidificato, diventa un monolite che, opponendo resistenza a qualunque tentativo di penetrarlo da fuori, irrigidisce i suoi confini immaginari e senza alcuna osmosi con l’esterno, tende a diventare asfittico e ad avviarsi, di conseguenza, verso la sua morte.

Se in origine il soggetto umano si costituisce e si posiziona nel campo dell’Altro, sia esso familiare, culturale, sociale, storico, mitologico, continuando poi a viverci dentro a partire dalle coordinate strutturali di partenza, la chiusura nei suoi confronti, lascia spazio a un dilagare immaginario, che rompe ogni legame con la realtà, che per quanto frutto di una costruzione simbolica, e anzi proprio per questo, rimane in generale l’unica dimensione condivisa, luogo di soggettivazione, relazione e desiderio. Se l’enclave immaginaria, non dialogando più con l’Altro simbolico, non trova più alcuna sponda alle pulsioni sottostanti, non vivendo più il quel registro del desiderio che si dà solo a partire dalla sua iscrizione nel Simbolico, il rischio di ebollizione del sistema chiuso di ogni diade fusionale, può farla esplodere con passaggi all’atto di inaudita violenza, soprattutto nel caso in cui un agente esterno, la solleciti aumentandone la pressione o minacciandone l’integrità.

Il narcisismo, inscritto com’è nel registro immaginario, può tendere verso una forma psicotica di paranoia, che interpreta il mancato riflesso del proprio io da parte dell’altro, diventato uno specchio opaco, come una possibile minaccia per la sua integrità, che lo porta a innalzare barriere che, anche laddove un nemico non ci sia, possono allucinatoriamente crearlo. In questo registro psicotico, il soggetto, avviluppato com’è dentro spire mortifere immaginarie, cerca di liberarsene con repentini passaggi all’atto, che portano con sé un impatto reale e sul reale, dannoso per sé e gli altri. La rigidità dell’ego può viceversa portare alla sua implosione, ovvero a un collasso psichico, quando la tensione impiegata nel tentativo di ricongiungersi all’immagine ideale dell’io, svuota il soggetto di qualunque corrente libidinale, convogliata interamente sull’immagine, nella quale il soggetto si trova tragicamente intrappolato. Questo schiacciamento sull’immagine, questa immaginaria copula mortifera, questo imprigionamento in un simulacro che diventa esso stesso sostanza del soggetto, fa si che ogni vacillamento dell’immagine, venga vissuto come un pericoloso oscillamento della torre eburnea nella quale si è rinchiuso da sé lo stesso ego.

Allo stesso tempo l’ego, come nel quadro di Magritte, La riproduzione vietata, vede sé stesso riflesso di spalle nello specchio, in un’aberrazione ottica che restituisce la sua verità, quella di non potersi mai vedere con gli occhi dell’Altro, ma solo con quelli dell’altro immaginario speculare, sulle identificazioni stratificate del quale si fonda l’ego. Vivendo nella tensione del voler coincidere con questa immagine, fino a ritrovarsi completamente alienato da sé, fuso con la stessa immagine che lo specchio gli ritorna. Il prezzo pagato dall’essersi voluti spingere fino alla sovrapposizione tra l’io e la sua immagine ideale, è quello della perdita del soggetto e della sua stessa vita, cristallizzatasi e divenuta isomorfica a una superficie speculare tanto dia-bolica, in quanto non assume l’Altro a partire dalla polisemia inesauribile del simbolo, quanto spettrale, perché possiede la stessa illusorietà evanescente degli spettri.

Una posizione eccentrica rispetto all’ego apre uno spazio che non è più la sua immaginaria isomorfica proiezione, ma un piano di consistenza, del quale si tratta di cogliere i punti singolari d’intensità che esso contiene, collegandoli tra loro, per far risaltare quella figura che, sottesa e in ombra, agisce come un ospite inquietante, facendo talvolta fibrillare il nostro ego. Lasciando sempre libero l’ultimo punto di questa figura, per evitare che una volta portata alla luce, essa si sedimenti in una concrezione chiusa al futuro, quando tutto ciò che sta dentro e fuori al soggetto, è mutato. Una figura, quindi, che rimanga aperta alla sua riconfigurazione diacronica, in presa diretta con il divenire dell’essere. Detto in altro modo, si deve lasciare una casella vuota come nel gioco del 15, affinché possano darsi processi diversi di costruzione del Sé, dato che quest’ultimo non è una sostanza, ma un processo continuamente in fieri, e che la fine del gioco corrisponde alla sua fine, che è anche la fine della nostra vita.

L’incompiutezza dell’essere umano è figlia della stessa incompletezza del grande Altro, che non disponendo di un Altro dell’Altro che lo giustifichi, rimane abitato da una mancanza significante, da un buco, che si riverbera nel soggetto, la cui significantizzazione lascia un resto, che potremmo assimilare a un buco nella rete significante, al cui interno il soggetto trova i significanti stessi con i quali identificarsi, buco che occupa il suo centro, tant’è che l’uomo lo si potrebbe definire Lochmensch o hominis lacuna. Per fare spazio all’alterità fuori di noi è necessario prima di tutto riconoscere l’alterità che c’è dentro di noi, quell’estimità, così la chiamava Lacan, che abita nel nostro interno come fosse il nostro esterno. Quella terra straniera dentro di noi alla quale ci si deve affidare, perché lì sta inscritta la nostra verità singolare, quella per cui l’Io non esaurisce la nostra soggettività, e il nostro essere di soggetto non si riduce ad essere la proiezione isomorfa dell’Io ideale. Questo Io eccentrico non sarà più il riflesso narcisistico immaginario del moi, mail soggetto del desiderio, ovvero il soggetto dell’inconscio (je). Soggetto dell’inconscio che trae origine dai marchi che l’Altro del Simbolico (A) incide sul Reale del corpo di godimento e dalla loro esclusione dal piano immaginario dell’Io (moi). Esclusione che è una rimozione, che nasce dalla loro incompatibilità con questa immagine ideale dell’Io.

La morte funziona in lui come un polarizzatore, che curva l’illusoria linea della sua vita, secondo una polarizzazione in apparenza circolare, «Una delle mie grandi angosce – diceva Reb Aghim – fu quella di vedere, senza poterla fermare, che la mia vita si arrotondava per formare un anello», ma in realtà ellittica, perché il ritorno verso la propria origine, comporta sempre una diffrazione eccentrica, «Quando il cerchio gira, […] la sua identità a sé riceve una impercettibile differenza che ci permette di uscire efficacemente, rigorosamente, cioè discretamente, dalla chiusura» (Derrida, 1982), come aveva ben inteso anche Eliot: «Non smetteremo di esplorare, alla fine di tutto il nostro andare, ritorneremo al punto di partenza, per conoscerlo per la prima volta» (Eliot , 2000). Al termine del tempo che ci è dato vivere, torneremo nel luogo dove è cominciata la nostra vita, ma non lo riconosceremo, perché il tempo nel mentre, ci avrà reso immemori come pure perché la conoscenza, sia essa reminiscenza come nel mito platonico della metempsicosi, oppure declinata al futuro anteriore come in Lacan, è data sempre après-coup.

Il movimento ellittico di ritorno verso la nostra origine, è un ritorno che cancella «l’identità a sé dell’origine» stessa, in quanto eternamente mancata. «Il centro è il pozzo […] Forse il centro è lo spostamento della domanda» (Jabès cit. in Derrida, 1982) scrive a proposito del libro, Edmond Jabès, a significare nel nostro caso che l’identità va forse pensata più nella sua eccentricità che nel suo decentramento, ovvero va pensata nella sua «irreferenza al centro». Il centro è un buco nel quale non si da domanda e quindi differenza alcuna, ma solo quella stasi che porta con sé l’alito della morte, il centro «è un altro nome della morte» (Derrida, 1982). È però nell’e-stasi della domanda la quale innesca la differenza, che si dà vita, nella misura in cui la domanda stessa rinnova di continuo la spinta ad uscire dal campo gravitazionale di quel sole nero, in cui collassa ogni possibilità di futuro.

I segnali incessanti che la tecnosfera digitale ci invia, sono tali da aver reso la nostra vita una ininterrotta re-azione a quest’ultimi. Una vita diventata re-attiva, che non agisce più, ma che re-agisce in maniera automatica, bypassando ogni filtro razionale, come un corpo sottoposto a continue scariche elettriche a bassa intensità. Gli stimoli visivi e sonori nella loro ininterrotta puntualità, aggirano il linguaggio per arrivare direttamente al cervello, il quale reagisce con le aree deputate a questi sensi, senza il coinvolgimento e l’attivazione dell’area di Broca. Questo significa incapacità crescente di elaborare un pensiero astratto, articolando una riflessione logico deduttiva, per rimanere su di un piano di stimolo risposta, nel quale l’universo di senso, che si apre a partire dalla struttura del linguaggio, si riduce a uno spazio di soddisfazione di bisogni elementari e di re-azione compulsiva al continuum stimolatore audiovisivo.

La discretizzazione della vita in ogni sua espressione, in particolare del soggetto umano, allo scopo di renderne possibile la calcolabilità, sta smarrendo la continuità del suo tessuto connettivo, senza che la somma parcellizzata delle parti, possa ricostituirne l’unità. L’uomo è diventato un quantified self, che automonitora costantemente il proprio stato psicofisico e prestazionale, attraverso i dati rilevati da dispositivi digitali o sensori indossati. La sua memoria è allocata nel cloud, il suo intelletto sostituito dall’IA, la sua ragione ridotta allo statuto di strumento, il suo pensiero e il suo sentire, sui quali non fa più affidamento, delegati alla macchina.

La rivoluzione tecnologica del digitale e più ancora i suoi ultimi prodotti sociotecnici, quali social network, big data, realtà aumentata, algoritmi e intelligenza artificiale, in particolar modo quella generativa conversazionale, è arrivata a costruire un esoscheletro digitale, il quale sta riconfigurando società, economia, politica e guerra, giù giù fino all’identità e alla psiche dei singoli individui. Lontani da ogni atteggiamento neoluddista, che si auspichi un nostalgico e impossibile ritorno al passato, sorge la necessità di una interpretazione, di un governo e di una riconfigurazione della tecnologia digitale, che abbia l’obiettivo di restituire alla persona le facoltà di sentire e pensare autonomamente, cosa che oggi, a nostro modo di vedere, risulta a rischio. Tecnologia da sottoporre quindi a una preventiva disamina ermeneutica, per verificare se essa possieda la doppia valenza significativa di un pharmakon, in quanto insieme veleno e cura possibile o se altrimenti, contenga già nel suo concepimento un dettato capitalistico calcolatore e accumulativo, che ne farebbe lo strumento affinché questo sistema possa continuare a riprodursi, nell’evidente a tutti sua antinomia nei confronti della vita stessa.

Per ri-acquisire e corrispondere al proprio destino singolare, è sempre più necessario sottrarsi al livellamento uniformante dell’impersonalità imposta dalle medie statistiche, che conduce a un insieme di qualità senza soggetto, restituendo alla ragione la capacità sintetica di tenerle assieme. Per fare questo è necessario disautomatizzare il nostro intelletto calcolante che, esteriorizzato nella computazione algoritmica intensiva, non lascia più alla ragione il tempo sufficiente per congiungere le singole parti oggetto di analisi, facendo emergere quell’immagine sintetica di fondo, come contenuto del concetto. Esteriorizzazione nel senso stiegleriano di esosomatizzazione, laddove ogni tipo di artefatto umano, è frutto di una esteriorizzazione del soggetto che è sincronicamente interiorizzazione, in un doppio richiamo speculare nel quale il chi e il cosa si scambiano vicendevolmente posizione, quali aspetti diversi di un’unica entità, il che conduce al superamento dell’opposizione tra soggetto e oggetto.

Restituire una temporalità non schiacciata sull’immediatezza sincronica del presente, ma fondata sulla dimensione diacronica in cui opera la facoltà della ragione, diventa quanto mai necessario per un’interpretazione del presente che sappia cogliere nei particolari, quel disegno di fondo in cui si annuncia il futuro a venire.

Riacquisito e ampliato lo spazio proprio della ragione, oltre quello meramente strumentale, la ragione stessa va messa in ascolto e in relazione delle altre ragioni che abitano l’essere umano, a partire da quella ambivalente e plurivoca dell’inconscio. La direzione da prendere è quella che porta verso un soggetto che, uscito dal suo arrocamento egoico, si apra a quella dimensione dell’Altro, la quale contiene in sé le ragioni della sopravvivenza del soggetto e del suo vivere in una dimensione generativa di senso (e perciò di vita) individuale e collettivo, giacché simbolicamente intersoggettiva per struttura.

Bibliografia

J. Lacan, Lo stadio dello specchio in Scritti, Einaudi, Torino 1978

J. Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino1982

T.S. Eliot, Quattro quartetti, Feltrinelli, Milano 2000

B. Stiegler, La colpa di Epimeteo. La tecnica e il tempo # 1, Luiss University Press, Roma 2023

id. , La società automatica 1. L’avvenire del lavoro, Meltemi, Milano 2019


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