Sulla necessità di occuparsi di cose digitali da un punto di vista filosofico


Non faccio il filosofo di mestiere. Però ho studiato filosofia a tre riprese. La prima a scuola, per tre anni, in maniera sistematica e lineare. La seconda all’università, per quattro anni, in maniera randomica. Il periodo più fruttuoso è però il terzo, che è durato trent’anni, ed è quello in cui ho continuato a leggere e studiare quello che mi serviva per applicarlo al mio campo professionale, cioè la progettazione di software. Ho cercato di ripensare concetti come interfaccia, struttura, dialogo, apprendimento dentro le esperienze che man mano facevo con diversi linguaggi di programmazione. Ho preso appunti, ho scritto qualcosa qua e là, più per me che per gli altri, soprattutto per aiutarmi nella progettazione dei software educativi, che era la mia attività principale.

Mi pare che oggi – con una maggiore attenzione mediatica, positiva e negativa, sulla filosofia, e una sempre maggior inconsapevolezza nell’uso degli strumenti informatici, soprattutto da quando la parola d’ordine è intelligenza – sarebbe utile provare a raccogliere questi tentativi in una forma più strutturata. Riconoscendo, magari, la limitatezza di quei pensieri, la loro necessaria collocazione nella storia dell’informatica degli anni ’90, gli errori involontari che si portavano dietro, come ho provato a fare quattro anni fa insieme a Marco Guastavigna2.

La forma che dovrebbero avere questi saggi di “filosofia del digitale non può essere, per quanto mi riguarda, quella apodittica: il digitale è qui, il digitale è là. Non solo perché “digitale” non è un concetto monolitico, e anzi parlarne in termini di oggetto unico è parte del problema. Non è un soggetto metafisico dotato di identità e di volontà proprie, come sembra a volte di capire. Non più di quanto non siano soggetti metafisici gli algoritmi:3 i quali, incolpevoli capri espiatori, sono pensati da persone e realizzati in programmi scritti per uno scopo che a volte sfugge persino a loro.
Il digitale non è e non fa: ci sono strumenti e oggetti digitali, progettati e realizzati da persone, che però condividono alcune caratteristiche fondamentali, talmente fondamentali che se non si parte da lì non si capisce come funzionano. Solo che il discorso su questi oggetti non può essere esclusivamente tecnico, perché va a toccare la maniera con cui pensiamo e usiamo le cose con cui abbiamo a che fare tutti i giorni.

Nemmeno, credo io, si può parlare del digitale solo in una prospettiva di “teoria dei media digitali”, partendo solo dagli usi che se ne fanno, come se fossimo etnologi alle prese con popolazioni selvagge (i “nativi” digitali) o esobiologi davanti alla fauna di un pianeta lontano (la “rete”). Non che non sia importante studiare anche questi aspetti, che ci riguardano da vicino (anzi: ho speso parecchio tempo a leggere McLuhan, Ong, Bolter, Grusin) ma non si può partire da lì e ignorare quello che c’è sotto, le caratteristiche intrinseche che facilitano certe relazioni e ne impediscono altre. Queste caratteristiche non determinano le relazioni più di quanto la macchina a vapore abbia determinato la relazione tra operaio e proprietario della fabbrica; ma ignorarle significa fare un atto di fede sulla naturalità delle “digisfera” (non esiste? beh, l’ho inventata proprio ora). In sostanza: gli artefatti digitali hanno delle caratteristiche proprie, specifiche, almeno in termini di operazioni possibili su di esse, che vanno studiate per capire quali universi virtuali diventano reali e quali no, e perché.

Perché fare questi ragionamenti ad alta voce, insomma pubblicarli? E’ una forma di terapia. Certe difficoltà che incontriamo, certe ansie, certe paure dipendono in fondo dal fatto che di questi oggetti digitali sappiamo poco, capiamo poco, e anche se siamo costretti ad usarli lo facciamo come se fossero i vecchi, rassicuranti oggetti analogici. Ma non lo sono. Per rassicurarci, tendiamo a immaginare il futuro davanti a noi estendendo il presente, stirandolo, prolungandolo, con un’operazione analogica, appunto. Invece ci sono già delle cesure enormi tra come era e come è e sarà. Ci sono dei salti nei modelli economici, delle trasformazioni radicali nelle relazioni tra persone. Una analisi filosofica degli artefatti digitali ci potrebbe aiutare a capire queste trasformazioni, potrebbe insegnarci a trattare con quelle paure, se non proprio a superarle. Ci aiuterebbe a vedere chi proietta quelle ombre – se non proprio a liberarci dalle catene.

E’ anche possibile che questi ragionamenti possano portare qualche novità proprio nel cuore della filosofia. In fondo la filosofia ha costruito i suoi concetti a partire dagli oggetti analogici, costruiti attraverso i nostri cinque sensi, e utilizzando il linguaggio naturale come unico collante. Il fatto che esista una nuova “specie” di oggetti che sono costituiti solo da informazione e che esistano linguaggi artificiali con cui questi oggetti possono essere creati e manipolati potrebbe insegnare qualcosa anche ai filosofi. Da questo punto di vista, la storia personale di chi parla è importante e non avrebbe senso metterla tra parentesi: non sono un filosofo puro, non vivo dentro l’università, ma non ho mai smesso di pensare in termini filosofici. Ho scelto di vivere della programmazione dei software per l’attrazione (estetica e etica) che questa parte del lavoro umano di creazione tramite il linguaggio esercitava su di me; questa condizione pratica di umanista quotidianemente alle prese con le macchine è forse l’aspetto che più potrebbe fornire un contributo alla discussione su “cos’è il digitale”.

Filosofico non deve significare, a mio parere, difficile, contorto, pieno di rimandi ad autori noti e meno noti, in modo da selezionare i lettori che già sanno in mezzo a tutti gli altri. Mi immagino un linguaggio piano, preciso ma quotidiano, che almeno provi a far entrare nel discorso anche chi non ha un passato di letture filosofiche tradizionali. Peraltro, come in tutti i casi di percorso sul limitare tra due discipline, il rischio è che nemmeno i filosofi di professione capiscano perfettamente un linguaggio estremamente tecnico, come è quello dell’informatica: i casi di utilizzo approssimativo dei termini algoritmo, cloud, web, rete (per limitarsi ai principali) sono sotto gli occhi di tutti.

Non deve nemmeno significare astratto, generale, che si arresta alle grandi domande; deve invece assumero un modo dell’indagine e del discorso specifico, quello che sale e riscende, come indicano i pupazzetti di Platone e Aristotele nella Scuola di Atene di Raffaello.
E’ anche il modo che mi si addice di più, vista la mia esperienza professionale: quello artigianale. Una filosofia che nasce dalla prassi, diventa teoria e poi cerca una validazione di nuovo nell’esperienza, e così di seguito. La forma potrebbe essere quella di una serie di racconti à la Bateson, che partono ogni volta da un’esperienza pratica e su questa provano a esercitare un’analisi, a estrarre dei concetti generali, fino a vederne altri effetti, anche e soprattutto attraversando i confini disciplinari. O meglio ancora, quella di conversazioni a più voci, come abbiamo provato a fare per tre anni con Pino Moscato, Roberto Maragliano e alcuni amici comuni.4

1 Questa è una versione abbreviata di un testo più lungo che potete leggere qui: https://www.stefanopenge.it/wp/la-babele-delle-api/ . Il testo continua con un esempio di applicazione al caso della traduzione tramite sistemi di intelligenza artificiale

2 https://www.stefanopenge.it/wp/tecnologie-digitali-per-lo-sviluppo-umano/

3 https://www.stefanopenge.it/wp/ancora-sugli-algoritmi/

4 https://www.conversazionidilunedi.it/


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *