Maurizio Bottoni, uno dei più raffinati ed espressivi interpreti dell’arte figurativa italiana, dopo aver frequentato l’Accademia di Belle Arti di Brera, si dedica allo studio delle antiche tecniche pittoriche e incisorie. II suoi soggetti sono principalmente nature morte, paesaggi e ritratti in cui si ritrovano, numerosi, richiami a dipinti, disegni e incisioni di grandi artisti del primo Cinquecento come Albrecht Dürer, e della tradizione dei maestri fiamminghi e italiani, come Rembrandt e Caravaggio, nonché alla figurazione contemporanea di Giorgio De Chirico, che lo incoraggia, giovane, allo studio del linguaggio pittorico dei maestri del passato. Una pittura, quella di Bottoni, moderna e contemporanea nelle tematiche, ma tradizionale e sapiente nel linguaggio di ascendenza fiamminga, fusi assieme nella singolarità del suo sguardo pittorico.
Nel suo studio milanese, egli continua a dipingere su tavola, nella convinzione che solo quest’ultima sia in grado di restituirgli quella profondità che l’apparenza della tela non riesce a dare. Utilizza una tecnica cinquecentesca, chiamata ‘olio su tavola incamottata’, che tra le sue caratteristiche ha quella di rendere il quadro estremamente durevole nel tempo. Si pensi che un dipinto del pittore fiammingo Jan van Eyck, grazie all’utilizzo di questa tecnica, si trova ancora oggi, dopo 600 anni, in perfette condizioni. Ogni tavola viene preparata dall’artista attraverso un’operazione lunga e faticosa che consiste nello stendere sopra una garza applicata alla tavola, uno spessore di gesso misto a colla animale spatolandolo accuratamente, fino ad ottenere una superficie estremamente liscia, compatta e luminosa. Bottoni non disegna prima il quadro per poi dipingerlo ma stende direttamente il colore attraverso un’infinità di pennellate che vanno a stratificarsi secondo velature trasparenti sovrapposte, che lasciano trasparire la luminosità della tavola incamottata che le supporta. Il processo pittorico di Bottoni non è lineare, ma fatto di continue riprese e modifiche dei dettagli del dipinto, dettate da un flusso inconscio quasi automatico, il cui risultato è spesso, come riconosce lo stesso artista, diverso dall’idea originale. Lo sguardo pittorico non è quello che il pittore rivolge all’oggetto da ritrarre, ma quello che l’oggetto stesso rivolge al pittore. E’ infatti “dalle cose del mondo che il pittore trae la consapevolezza delle sue potenzialità, per rivestirle poi delle sue azioni”.
L’infanzia di Bottoni trascorre in quella campagna bergamasca, che funzionerà da deposito di tracce mnestiche, da cui ripescare e attualizzare molti dei suoi soggetti: zucche, asparagi, spighe, foglie, boschi, insetti, uccelli e altri animali. Un mondo che, attraverso suoni, odori, colori, affetti ed emozioni, inscrive nel sentire del pittore un linguaggio simbolico che costituirà lo sfondo della sua cifra creativa matura. Un linguaggio di tracce, resti e lacerti, che l’artista condenserà attraverso la sua singolare soggettivazione artistica. La singolarità dell’ethos di Bottoni traluce dai suoi quadri, attraverso i quali si percepisce sempre un oltre che il dipinto, velandolo e dis-velandolo, porta enigmaticamente in superficie. Ma nella pittura di Bottoni c’è anche lo sguardo di sua nonna, contadina bergamasca che per ore lo guardava incantata dipingere, rimanendogli alle spalle. Dal suo apprezzamento per l’arte del nipote, egli trae la convinzione che l’arte non necessiti di intermediazione per esserne fruita e che una volta che venga meno ogni sovrastruttura l’essere umano sia in grado di comprenderla a prescindere dalle sue conoscenze, segnatamente quando quest’ultime risultino assenti.
Se Federico Zeri scriveva di Bottoni: “è l’unico pittore italiano che io conosca che dia vita alle cose”, era perchè Bottoni coglie le cose non ponendosele di fronte come oggetti, ma entrandovi dentro e lasciandole affiorare in superficie nella verità del non nascondimento (a-letheia). Affinchè ciò sia possibile il soggetto pittorico deve essere colto dal vero e non per il mezzo di una riproduzione fotografica. Quest’ultima, infatti, è già altro dall’originale in quanto prodotto di una scelta “a freddo” compiuta nella camera oscura o di un calcolo di un’interpolazione algoritmica. Frapporla tra l’atto del dipingere e l’originale, significa che il soggetto che ne risulta dipinto sarà la stessa foto e non il soggetto originale di cui essa è una riproduzione. Non è un caso che i quadri di Bottoni siano difficilmente riproducibili attaverso la fotografia in quanto essi colgono quell’innervazione e quella tramatura dell’essere delle cose, che la fotografia, in qualche modo, tende a non cogliere. Ricordiamo che non c’è prima il pittore e dopo l’opera d’arte creata da lui, perché essi si danno insieme come differance, ovvero come co-individuazione, laddove uno inventa l’altra e viceversa e questo a partire da un fondo preindividuale condiviso, del quale la foto rappresenta già l’individuazione di un punto d’osservazione, che come medium dell’oggetto, ne condizionerebbe la rappresentazione pittorica.
Bottoni è una memoria viva della storia dell’arte, della quale porta le stigmate, non solo attraverso le sue opere, ma anche nella sua parola, la quale viaggia appassionata nel descrivere i suoi numi tutelari, con tutta la gratitudine che egli rivolge alla loro lezione. La sua tensione artistica lo porta anche a parlare della sua arte in un modo dissacrante: “Il 90% dei miei quadri mi fanno cagare, il più bello è quello che verrà”. Bottoni è un gaudente moderato, che cita Jacques Maritain e che intende coniugare etica ed estetica, nella convinzione che la funzione dell’arte sia quella di aggregare piuttosto che di disperdere, animata più da Eros che da Thanatos. Infatti le sue Vanitas, se a prima vista sembrano celebrare, appunto, la caducità della vita attraverso la presenza di scheletri e teschi, in realtà spesso testimoniano tutt’altro. A partire da Unknown1, dove l’inconfondibile icona della capigliatura di Andy Wharol, che campeggia sopra il suo teschio, ci dà la misura della natura senza tempo di ciò che si deposita nell’immaginario e nell’inconscio collettivo. Se il simbolo del padre della Pop Art sopravvive alla morte, allora quest’ultima non viene più esorcizzata all’interno di un orizzonte escatologico religioso, ma di quello immanente della sacralità della società dei consumi.
Ne La morte che ride2, lo scheletro che la rappresenta campeggia al centro del quadro contemplando, con un sorriso sulla mandibola, verrebbe da dire, la sua opera, stringendo nelle mani gli strumenti del suo mestiere, la falce e la clessidra.Ma il quadro che ritorna di più l’atteggiamento pacificato di Bottoni con la morte è senz’altro lo scheletro sdraiato de La morte della morte3, il cui titolo contiene la dialettica di una doppia negazione della vita che non fa che riaffermare la vita stessa.
Il tema di Autoritratto in compagnia della morte4, si fa consapevolezza della natura mortale dell’essere umano, subordinata all’incognita di una parabola temporale individuale, che a nessuno è dato conoscere. Ma il quadro và anche al di là di questa consapevolezza, facendosi rappresentazione della natura tecnica dell’arte, che in quanto techne, dischiude l’orizzonte temporale dell’uomo e con esso il sentimento della sua condizione mortale. È infatti dalla capacità di pre-vedere (pro-methis) e di anticipare la propria fine, che il furto del fuoco (techne) da parte di Prometeo rende possibile, che prende avvio lo svolgimento diacronico del tempo umano e con esso il suo sapere di dover morire, del suo essere-per-la-morte, come possibilità più propria da poter assumere su di sé. Essere-per-la-morte, che l’arte come techne, come artefatto nel quale l’uomo si esteriorizza e si spazializza, accorda con la natura ec-statica dell’essere fuori di sé, come modo di essere dei mortali.
Il suo San Sebastiano5 esposto a Ferrara, vincitore del Premio Suzzara nel 1990, è una figura algida, ritratta dalla bocca alle cosce e con le mani dietro la schiena, sullo sfondo di un lenzuolo, tra ombre e luci che nella bianchezza di un lucore diffuso, mettono in risalto con accuratezza, i dettagli.
Bottoni padre collezionava insetti che il figlio poi rappresenterà su tavole quasi naturalistiche6, che lo sfondo di foglie d’oro, renderà allo stesso tempo cariche di atmosfera fantastica e di passato, tra farfalle, coleottori e api, disegnati con grande attenzione ai particolari.
Due opere recenti, La piccola estate ed Erbe di prato con due api, testimoniano l’ininterrotta sperimentazione di nuove tecniche da parte dell’artista. Si tratta di olii dipinti rispettivamente su sei e otto vetri sovrapposti, che restituiscono un effetto tridimensionale simile a quello di un ologramma ma ancor di più, a quello di un diorama dentro una teca trasparente.
L’arte pittorica di Bottoni si avvale di una personale ricerca su pigmenti e colori e di un’alchimia che tras-muta i componenti base in colori che nessuna palette digitale sarebbe mai in grado di riprodurre. Di fronte a una notte stellata, mi confida di aver cercato per molto tempo di riprodurre quel blu del cielo che stavamo osservando e che è stato il lapislazzulo afghano a fornirgli la chiave del mistero cromatico. Paesaggio notturno con neve7, il riverbero della quale al chiaro di luna illumina il paesaggio circostante o Cielo stellato sopra un mare di nebbia in cui la profondità cromatica del cielo sfuma nel chiarore umbratile della nebbia, sulla quale si staglia in primo piano il paesaggio collinare, stanno lì a testimoniarlo.
Bottoni ha dedicato diversi quadri al tema dei boschi, boschi incantati e perturbanti, vere e proprie innervazioni fantasmatiche dell’autore. Boschi dai colori caldi, in cui filtra la luce del giorno, boschi algidi dalle tonalità fredde, boschi in cui la bruma sospesa rieccheggia atmosfere romantiche. Alcune volte l’autore vi è ritratto all’interno, da giovane, soverchiato dalle dimensioni degli alberi, dalle loro forme oniriche e dall’intrico di rami e fogliame8. E quando ciò accade egli ha spesso con se il cavalletto piuttosto che l’album di schizzi, che diventano veri e propri oggetti transizionali con cui far fronte a questa dimensione perturbante. Lo stesso schizzo che l’autore sta eseguendo all’interno di uno di questi boschi, rappresenta quell’artificio illusorio che è l’arte, la cui sensibilità simbolico-immaginaria, si frappone tra il pittore e la dimensione spaventosa che lo circonda.
I soggetti vegetali che Bottoni dipinge, siano essi una zucca9, degli asparagi o un covone di spighe10, sono circonfusi di un tenue alone metafisico, che li trasporta al di là di qualunque immediato realismo. Lo sfondo nero sul quale si stagliano, è di una tale profondità da restituire loro quella sacralità che è propria del creato.
Bottoni esegue anche tutta una serie di ritratti di grandi dimensioni dedicati ad animali, quali il maiale11, la mucca o l’asino, che nella storia della pittura non sono mai stati colti nella loro singolarità. L’accuratezza dei particolari con cui vengono ritratti, la saturazione dello spazio pittorico della loro figura e la presenza nel quadro di un cartiglio con una loro massima, li separa dall’anonimia del mondo animale consegnando loro la dignità pittorica di soggetti individuali. Alcuni quadri poi, come Grande volo12, non presente nell’antologica, rimangono in fieri, ovvero il collezionista lascia il quadro all’artista affinché questi possa aggiungere o sovrapporre nel tempo nuovi elementi. Questo processo però non decade in una “cattiva infinità”, ma lascia l’oggetto pittorico nella sua assoluta libertà di mutamento, della quale il pittore diventa medium. Il compimento del quadro sta nel suo non compiersi, che differisce indefinitamente il compimento stesso, differenziandosi in progress, ovvero individuandosi come una singolarità consistente, cioè incalcolabile e irriproducibile.
Bottoni ha un’anima colorata, il cui caleidoscopio si riflette sui quadri, irradiandoli di una policromia fantastica. Ma Bottoni coglie anche la vita nel suo brulichio palpitante, animale e vegetale, in cui gli insetti si sovrappongono e si intrecciano con la vegetazione, in una presa diretta con la vita nel suo continuo mutamento, come in Grande zolla13 o Zolla Notturna. Allo stesso tempo le nature morte, dove il pane si decompone, aggredito dalle mosche o le rose rosse vengono colte nell’istante del loro iniziale appassimento, testimoniano la struttura ontologicamente impermanente dell’essere delle cose. In quadri come Rose rosse, l’artista esemplifica il paradosso dei fiori di cui ci parla Bataille, svelando quell’impostura della loro bellezza, che occulta l’inevitabile caducità cui sono destinate.
Lo straordinario Api trittico14ci fa entrare dentro le cellette di un alveare, tra api operaie, fuchi e una macro ape regina, una comunità di produttori di miele e di pollinizzatori che si prendono cura della diversificazione della riproduzione della vita.
Se nel Cristo morto del Mantegna, lo spessore della carne martoriata e sanguinolenta è solo accennato e in parte pudicamente velato, quello di Bottoni15, al contrario, ne restituisce tutto il suo traumatico realismo. Qui il corpo di Gesù porta su di sé, in tutta la loro evidenza, quei segni della violenza che lo ha messo a morte, facendo risaltare, nella decomposizione della carne ferita, assalita dalle formiche, più la sua natura umana che quella divina.
Possiamo invece interpretare la testa mozzata del pittore in Ecce pictura16, come il prezzo pagato per la sua resistenza alla serialitá, al citazionismo e al pastiche, caratterizzanti l’arte postmoderna, alla dissolvenza dell’aura dell’opera d’arte, già denunciate a suo tempo da Walter Benjamin, con la consapevolezza, però, che quando non si tradisce il proprio daimon, si è sempre dalla parte della veritá.
In un’opera del 2021, Where?17, un lenzuolo bianco ricopre una figura della quale non si riesce a cogliere la natura, ma solo immaginarla. Nel suo nascondersi alla vista, essa allude alla sua natura fantasmatica, quella per cui essa non può mai essere colta e individuata con certezza (Where?), in quanto evanescente e intessuta dello stesso materiale con cui è fabbricato il nostro mondo onirico
In conclusione l’Eterna pittura di Maurizio Bottoni, titolo della sua recente antologica nella città di Ferrara, sembra indicare come un istante possa diventare eterno, quando il suo accadere venga sottratto al divenire del tempo. Esistono alcune esperienze in cui ciò è possibile e tra queste, quella dell’atopia, che ci rende «fuori di posto». Un’atopia che lo sguardo assorbito dall’opera d’arte, induce nel soggetto, de-situandolo, ovvero ponendolo per un istante fuori da ogni luogo e da ogni dominio, come accade nei punti singolari della matematica (ἀτοπία significa anche«singolarità»), compreso l’imperio di Chronos. Sguardo, che non è tanto quello che l’osservatore rivolge al quadro, quanto quello che il quadro stesso rivolge all’osservatore, pietrificandolo per un istante, come per una subitanea occhiata di Medusa, che congelando lo scorrere del tempo, gli doni un istante d’eternità. Qui risiede la doppia natura dell’arte, intesa come pharmakon. Arte che può far inabissare la fragile zattera del nostro Ego, inghiottito dalla trama pittorica, dalla quale traluce un fantasma che infrange lo specchio nel quale l’Io si riflette. Arte che allo stesso tempo ci salva dal nostro naufragio, riconsegnandoci un più ampio orizzonte di navigazione, che in mare aperto, ci permetta di puntare alla nostra individuazione singolare di soggetti.
















