Lo scopo del mio contributo è esporre la centralità del desiderio come connotazione fondamentale non solo del Sé, ma delle relazioni sociali e della nostra stessa umanità. Cercherò di mostrare infatti come dal desiderio prenda forma la duplice consapevolezza di noi stessi e degli altri soggetti. Innescati da questa fondamentale forza e capacità umana i rapporti intersoggettivi assumono però un duplice carattere, quello del conflitto e dell’accordo. Ne deriva un processo in cui la nostra individualità acquisisce i tratti antitetici dell’autonomia individuale e della dipendenza omologatrice. Nell’illustrare queste differenti componenti mi farò guidare – a dire il vero in maniera abbastanza “libera” – dalla modalità con cui Hegel, nel quarto capitolo della Fenomenologia dello spirito, introduce dapprima il tema del desiderio, per poi mostrarne gli effetti sulle relazioni intersoggettive, che egli illustra nei termini del conflitto e del riconoscimento reciproco.
- Una fenomenologia del desiderio
Il desiderio nasce dalla mancanza, dall’assenza, dalla vuotezza. Si desidera infatti ciò che non si ha, che non si possiede, ciò di cui si soffre la mancanza. Si tratta di un costitutivo della condizione umana, che origina dalla precarietà, dalla contingenza, dalla penuria.
Il Dio di Aristotele, l’atto puro, la piena e completa realizzazione di sé, può essere esclusivamente “oggetto” di desiderio (erómenon), dato che egli propriamente non desidera alcunché. Aristotele afferma infatti che quel Dio è all’origine dell’eterno movimento proprio in quanto è desiderato e amato, in quanto rappresenta la realizzazione dell’essere cui tende la natura tutta. Tuttavia l’unico oggetto di desiderio per quell’atto puro non può essere che se stesso: il suo pensiero è solo pensiero di sé, rivolto a se stesso. E quel pensiero di pensiero fa circolo con la sua stessa realtà.
La medesima circostanza si ripresenta con il “sapere assoluto” di Hegel. Quel sapere non ha altro oggetto che se stesso. Nel suo sapere-sé si contrae l’intera totalità, sicché quando sa se stesso sa la totalità essenziale delle cose. Perciò il sapere assoluto non desidera alcunché, ma – semmai – attrae verso di sé, o – meglio – “spinge” la coscienza finita a superare se stessa, a desiderare quel compimento di sé che essa ancora non ha raggiunto. La coscienza umana è, per Hegel, “in cammino” proprio perché ha in se stessa la spinta a realizzarsi nel sapere assoluto, a superarsi e a “compiersi” in lui. L’assoluto agisce su di lei come una sorta di “trascendenza immanente” che – da un lato – la mette “fuori gioco”, la spiazza, la costringe ad autocriticarsi, ma – dall’altro – la mette in cammino, la fa maturare, portandola a superarsi incessantemente. Alla base di quel processo sta proprio il desiderio della coscienza finita a superare la propria mancanza e a raggiungere il compimento di sé.
Il desiderio, dunque, si radica nella finitezza, nella tendenza – caratterizzante ogni realtà limitata – a superare il proprio limite. Ma è altrettanto inevitabile che un tale desiderio sia destinato a rimanere insoddisfatto. Il mancante è spinto a desiderare la pienezza ma è anche destinato a rimanere strutturalmente mancante. Scrive Sartre che la coscienza umana – un “nulla” che aspira a diventare “essere” – «è il proprio superamento verso ciò che le manca» ed è perciò caratterizzata «dall’essere ossessionata di continuo da una totalità che essa è senza poterla essere». Proprio per questo essa è «per natura coscienza infelice senza possibile superamento dello stato di infelicità»1. Tuttavia quell’anelito alla pienezza e al compimento, a differenza della tesi disperatamente negativa espressa da Sartre, non è del tutto inutile, vano, improduttivo. Anzi, come vedremo, ha dentro di sé potenzialità creative, capaci di mettere in moto uno sviluppo e un vero e proprio processo di formazione.
Se analizziamo con attenzione i caratteri di questo anelito troviamo al suo interno due lati, che inizialmente sembrano completarsi vicendevolmente e armonizzarsi tra loro, ma che poi nei loro sviluppi si rivelano intrinsecamente incompatibili e antitetici. Da un lato il desiderio è desiderio d’altro, vuole l’altro da sé, vuole quell’altro di cui manca. È nel desiderio che risiede la molla fondamentale della nostra relazione all’altro, della nostra apertura a ciò che non siamo. Ma, per contro, quell’altro deve “colmare” il Sé: volendo l’altro, in realtà, il desiderio umano vuole se stesso, vuole riportare l’altro a sé e, attraverso l’altro, rivolgere il desiderio verso se stesso. La pienezza che viene desiderata e ricercata non è la pienezza dell’altro. Non è l’altro che il desiderio intende soddisfare, perché – invece – intende soddisfare solo se stesso. È il Sé a voler ricercare la propria pienezza, appunto attraverso l’altro, quasi utilizzandolo come uno strumento atto a soddisfare se stesso.
La struttura fondamentale del desiderio è perciò il desiderio di sé, desiderio di essere confermato in se stesso. Il soggetto “gettato”, quale noi siamo, il soggetto mancante e precario, vuole la conferma di sé. La sua prima esigenza è quella di non essere annientato, di non essere schiacciato dalla propria insufficienza. Proprio perché “gettato” (o più radicalmente “assoggettato”) il soggetto vuole disporre di sé. Da qui è facile e breve il passo verso il desiderio di autoaffermazione.
Autoconservazione e autoaffermazione sono, entrambe, modalità della conferma di sé. In quanto tali non possono trovare soddisfazione nel mondo naturale degli oggetti: possedere, divorare, incorporare le cose è certamente un passaggio essenziale per “dar prova” della propria certezza di sé. Ma esercitando quel dominio sulle cose la coscienza umana non riuscirà mai a trovare soddisfazione2. È al mondo sociale che quell’anelito alla conferma di sé viene essenzialmente rivolto. Ed è dall’altro soggetto che il desiderio attende la risposta all’affermazione di sé.
Qui si innesca inevitabilmente il conflitto. La modernità, a partire da Hobbes, ha costantemente insistito sulla tesi che il desiderio di autoaffermazione genera inevitabilmente la lotta e che il conflitto si mostra come la condizione originaria della socialità. Ma di quale conflitto propriamente si tratta? Se interroghiamo Hegel su questo problema, vi troviamo una risposta singolarmente divergente rispetto a Hobbes: non è la lotta per i beni, o per la terra, o per la cupidigia attorno a risorse scarse a generare il conflitto. Se la spinta fondamentale che caratterizza il desiderio è la conferma di sé di fronte all’altro, ciò che la soggettività pretende da questo altro è il proprio riconoscimento, è il riconoscimento della propria affermazione. La richiesta imperativa all’altro soggetto è quella di essere riconosciuto, di essere confermato in se stesso. È proprio questa pretesa universale – rivolta da ciascuno a tutti gli altri – a scatenare il conflitto, a generare ciò che Hegel chiama la «lotta per la vita e per la morte»3.
Sono proprio quei due tratti antitetici del desiderio che già avevamo individuato nel suo sorgere originario a generare questo ambivalente rapporto con l’altro, perché da un lato noi vogliamo ottenere attenzione e conforto ma dall’altro non intendiamo assecondare la medesima richiesta che viene sollevata nei nostri confronti. Sembra un’antitesi paralizzante, ma, come vedremo, si tratta invece di una felice ambiguità, da cui emergerà uno sviluppo inaspettato e fecondo. Da un lato, infatti, il desiderio di riconoscimento spezza l’individualismo soggettivistico, il solipsismo con cui il soggetto vede solo se stesso: la soggettività si scopre bisognosa dell’altro, bisognosa del riconoscimento dell’altro. Di contro quell’apertura al “fuori di sé” si rivela fittizia: l’altro è solo un mezzo per arrivare a se stesso, uno strumento utile al Sé per ottenere la propria conferma. Come già anticipato, il soggetto propriamente non desidera l’altro ma solo se stesso. Quel desiderio è completamente “autocentrato”. Da ciò l’inevitabile conflitto: desiderando l’affermazione di sé di contro agli altri ogni soggetto entra in competizione con ogni altro.
In Hegel troviamo teorizzato questo legame inestricabile fra autocoscienza, desiderio e conflitto: «l’autocoscienza è certa di se stessa soltanto levando (durch das Aufheben) questo altro che le si presenta come vita autonoma; essa è desiderio (Begierde)»4. Questa equivalenza fra autocoscienza e desiderio ha un duplice significato. In primis nel desiderio si annida la ricerca di se stessa, l’anticipazione sensibile-naturale di quello che sarà successivamente il riferimento consaputo a sé. In secundis il desiderio è ricerca della conferma di sé, riaffermazione della “certezza” di se stessa. E questo avviene attraverso il toglimento (durch das Aufheben) dell’altro. L’autocoscienza deve “levare” l’autonomia dell’altro (la «vita autonoma») per affermare la propria. L’altro va “levato”, “tolto”, “rimosso”. Potremmo anche dire che l’altro vada “negato”, con l’avvertenza però che tale negazione non debba essere intesa in senso assoluto, anzi – secondo Hegel – non possa mai esserlo. E la parola Aufheben usata da Hegel sta lì ad indicarlo: l’altro “tolto” dovrà essere in qualche misura “conservato” dentro di noi.Il conflitto, esito inevitabile del desiderio di riconoscimento, non sarà il suo esito conclusivo e finale.
- La dialettica del riconoscimento
C’è un motivo logico che impedisce al conflitto di essere la scena definitiva con cui si conclude la dinamica del desiderio di riconoscimento. La pretesa di essere riconosciuto dall’altro, sollevata da ogni soggetto che voglia la conferma di sé, ovvero il desiderio di ottenere l’approvazione di sé, ha una conseguenza che il soggetto non prevede, non persegue e, per certi versi, non vuole, ma che – alla fine – sarà costretto a fare propria. A lui, infatti, non interessa per niente riconoscere l’altro, non ha questo desiderio, anzi ha il desiderio opposto: vuole essere riconosciuto dall’altro senza doverlo fare a sua volta. Riconoscere l’altro significherebbe per lui doverlo confermare, attribuirgli valore, riconoscere la sua autonomia, quindi in qualche modo rendergli omaggio e rinunciare alla propria autoaffermazione e signoria.
Tuttavia quando un soggetto potrà sentirsi effettivamente riconosciuto? Quali sono le condizioni che gli consentiranno di raggiungere la certezza e la consapevolezza di aver ottenuto il riconoscimento? Tutto ciò potrà essere raggiunto a una sola condizione: che chi lo riconosce sia da lui ritenuto degno di riconoscerlo. Se non si confida nella sua capacità di riconoscere, se non gli si attribuisce una qualche dignità, autorevolezza, valore, il desiderio non potrà ritenersi soddisfatto e la dinamica del riconoscimento non potrà essere conclusa.
Nessun soggetto potrà fingere a se stesso di esser stato riconosciuto. Egli deve esserne certo. E non vi potrà essere nessun’altra autorità al di fuori della sua a conferire una tale certezza. È qui che si annida quella conseguenza non prevista, non perseguita, non voluta, ma altrettanto inevitabile: ritenere qualcuno degno di riconoscere significa averlo riconosciuto, cioè avergli attribuita la medesima dignità che il soggetto si attende da lui. Io sarò autorevole solo se lo sarà anche l’altro, sarò degno se lo sarà anche l’altro, sarò confermato nella mia autonomia se anche l’altro lo sarà nella sua.
La pretesa di essere riconosciuto si capovolge inevitabilmente nella necessità di riconoscere. Il soggetto da “riconosciuto” si scopre inevitabilmente “riconoscente”. Scrive Hegel: «Il movimento è allora senz’altro quello, duplice, delle due autocoscienze. Ciascuna vede l’altra fare la stessa cosa che essa fa; ciascuna fa per parte sua proprio ciò che sollecita nell’altra; e anche quel che fa, pertanto, lo fa solamente nella misura in cui l’altra fa lo stesso. Il fare unilaterale sarebbe inutile, poiché ciò che deve accadere può istituirsi solo grazie a entrambe»5. Non solo sono necessari due soggetti ma è necessaria l’attività di entrambi, ovvero è necessario il riconoscimento dell’uno verso l’altro e dell’altro verso l’uno. C’è un solo modo affinché il processo dell’essere riconosciuto possa ottenere il suo scopo: trasformarsi nel processo del riconoscere. Se non vi sono entrambi i processi non sarà avvenuto nessun riconoscimento. La reciprocità è la condizione affinché il fine del desiderio possa realizzarsi.
Questo intreccio fra conflitto e riconoscimento reciproco accompagna la formazione della nostra individualità, ma è al tempo stesso il processo che ha segnato l’inizio della storia umana. Si tratta di una dinamica ontogenetica e filogenetica. Quando Hegel parla della «lotta per la vita e per la morte» non si riferisce a una specifica fase della storia umana. Non è il medioevo, non è la lotta cavalleresca ciò che egli ha in mente. Il contesto in cui viene collocata quella dinamica è infatti la formazione dell’autocoscienza umana a partire dall’appetito puramente naturale e biologico. Perciò è qualcosa che va collocato alle origini dell’umanità. In termini hegeliani potremmo caratterizzare questo passaggio come la transizione dalla natura allo “spirito”. Com’è noto, la posizione hegeliana al riguardo non è per niente dualistica: i due “regni” non sono cartesianamente (o kantianamente) contrapposti, ma – al contrario – vi è continuità, passaggio, transizione dall’uno all’altro, senza interruzione di sorta. La natura anticipa al suo interno molte caratteristiche dello spirito, così come lo spirito ripresenta – trasformate – alcune tipiche movenze naturali. Nel capitolo quarto della Fenomenologia quell’appetito naturale, quella brama puramente biologica, diventa desiderio quando “comprende” che non potrà ottenere soddisfazione finché sarà rivolta alla negazione puramente animale delle cose che ci stanno attorno, quando cioè rivolge il suo sguardo desiderante nei confronti degli altri soggetti. Qualcosa del genere è avvenuto prima della storia e da quel processo – perché di processo di tratta e non di singolo evento – è nata la Storia. Ma questa vicenda torna a ripresentarsi nella piccola storia di ognuno di noi, segnando inevitabilmente la nostra infanzia e il nostro processo di formazione.
- Risultato della “dialettica” del riconoscimento
La prima conseguenza di questo esito inaspettato è la rottura dell’autocentramento del soggetto. La vera apertura all’altro non avviene nel sentirsi riconosciuto bensì nel riconoscere. Proprio la reciprocità che caratterizza l’intera dinamica fa sì che alla fine del processo si ottengano due risultati complementari e reciprocamente intrecciati. In primo luogo il soggetto consolida la propria individualità e raggiunge la certezza di se stesso. Hegel lo afferma esplicitamente ponendo nel riconoscimento la condizione per poter raggiungere la consapevolezza di sé: «L’autocoscienza è in sé e per sé allorquando, e per il fatto che, essa è in sé e per sé per un’altra autocoscienza; ciò significa che è solamente come qualcosa di riconosciuto»6. Già il desiderio conferiva al soggetto una sorta di sentimento di sé, ma solo il riconoscimento dell’altro trasforma quella vaga contezza di se stesso nella piena consapevolezza. In secondo luogo l’individuo scopre l’altro soggetto. Lo scopre innanzitutto come qualcuno di cui ha bisogno, ma soprattutto lo scopre come qualcuno che egli stesso ha attivamente riconosciuto. Gli ha conferito infatti la medesima dignità che ha ricevuto da lui. Il solipsismo originario è stato rotto dall’interno. La dinamica del riconoscere lo ha condotto al di là delle sue stesse intenzioni, svelando ai suoi occhi un mondo di soggetti che hanno la sua medesima dignità e valore.
L’io e il tu si scoprono e si consolidano insieme. Entrambi infatti si conferiscono l’autosussistenza ma tale autosussistenza è il risultato della dipendenza reciproca. Ognuno di noi ha forgiato la sua indipendenza grazie al riconoscimento altrui, grazie a quella dipendenza. L’altro non è un nostro nemico ma il nostro più grande alleato.
La seconda conseguenza è però negativa, foriera di conseguenze patologiche. Dipendendo dal riconoscimento altrui, dal consenso altrui, dall’accettazione altrui, il soggetto finisce per perdere se stesso, piegandosi al giudizio dell’altro, al consenso sociale, alle idee e ai comportamenti degli altri. Conseguenza inevitabile del desiderio di riconoscimento è la ricerca del consenso, della “medietà”, dell’accettazione. L’individuo perde se stesso annacquando la sua identità nella socialità, nell’omologazione uniformante. Invece che guadagnare se stesso – il vero obiettivo del desiderio – egli introietta al suo interno il condizionamento sociale. Non si tratta solo di acquisire le norme che regolano la convivenza civile, facendole proprie, ma di dare falsamente valore a ciò che propriamente valore non ha: opinioni false, immagini ideologiche, rappresentazioni fantasmatiche. Alcuni hanno connotato questo complesso di conseguenze negative come la “dark side” del riconoscimento. In realtà qui non c’è nulla di “oscuro”, perché siamo in presenza di qualcosa di assolutamente evidente: la chiarezza della riproduzione del meccanismo sociale.
È tuttavia sempre possibile resistere a questo fenomeno di omologazione, indotto dallo stesso desiderio di riconoscimento: sviluppando quel primo fondamentale risultato con cui il soggetto aveva acquisito non solo la consapevolezza della propria autonomia ma la propria capacità attiva di conferire autonomia all’altro. Anche il soggetto uniformato e schiavizzato dalle forme contemporanee della socialità patologica non solo si è sentito approvato, felice nella sua falsa accettazione sociale, ma, proprio in quanto riconosciuto, non ha potuto non riconoscere l’altro. In altri termini, tutti noi abbiamo necessariamente acquisito questa fondamentale risorsa: siamo diventati capaci di riconoscere. L’acquisizione della capacità attiva di riconoscere è la terza fondamentale conseguenza della dialettica del riconoscimento.
La sottomissione del soggetto al “sociale” può essere superata “riscattando” la sua capacità attiva di essere se stesso come soggetto riconoscente l’altro, facendola valere di contro alla sua passività paralizzante. Non è solo lui a dipendere dall’altro ma è anche l’altro a dipendere da lui. Se l’accettazione mimetica lo ha reso oggetto passivo, il conferimento di dignità e autonomia all’altro lo rende soggetto attivo. In questo capovolgimento dell’oggetto nel soggetto risiede la radice e la risorsa fondamentale per la costruzione della nostra individualità. Ciò che è stato catalogato come “autenticità”, ritenendola una sorta di proprietà originaria dell’individuo, poi perduta a causa dei processi sociali di omologazione7, non ha nulla di “originario” né può essere ottenuta solipsisticamente attraverso una sorta di decisionismo esistenziale. Al contrario, quella capacità di essere se stesso è a sua volta un prodotto sociale, il risultato di processi di riconoscimento riusciti. Non è nel rifiuto della socialità che possiamo ottenere la “salvezza dell’individuale”8 ma in una socialità diversa: attiva.
Va da sé che un tale riscatto dell’individualità non sarà mai acquisito una volta per sempre. Al pari del sentirsi riconosciuto l’individuo non lo è mai in modo definitivo. Riconoscere ed essere riconosciuti sono processi mai conclusi. Come lo è il desiderio, mai definitivamente “colmato”, mai soddisfatto. In questa dinamica incessante consiste il nostro processo di formazione. Siamo soggetti in cammino. La nostra meta è questo cammino medesimo.
1 J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 2002, p. 131.
2 La coscienza «leva» l’altro, lo riconduce a sé, ma un tale «rapporto negativo» non riuscirà mai a «levare» realmente l’oggetto; «anzi, in questo modo non fa che produrlo nuovamente, così come riproduce anche il desiderio» (G.W.F. Hegel, La fenomenologia dello spirito, Einaudi, Torino 2008, p. 126). Il desiderio rivolto agli oggetti è destinato a rimanere strutturalmente insoddisfatto e a riprodursi all’infinito.
3 Ivi, p. 131.
4 Ivi, p. 126.
5 Ivi, p. 129.
6 Ivi, p. 128.
7 Il riferimento più noto è costituito dalle tesi sviluppate da Martin Heidegger in Essere e tempo, secondo cui si può far valere la propria autenticità (Eigentlichkeit) di contro ai processi spersonalizzanti della sfera pubblica (Öffentlichkeit) attraverso la solitaria decisione (Entschlossenheit) dell’Esserci (Dasein) di scegliere se stesso, salvaguardando la propria originaria apertura di contro alla chiusura di orizzonte prodotta dai processi mondani.
8 Il concetto di “salvazione dell’individuo” è tipicamente adorniano e tuttavia Adorno lo sviluppa proprio di contro alle teorie reazionarie dell’autenticità (un concetto «in cui si è ritirata e concentrata la morale borghese dopo la dissoluzione delle sue norme religiose e la formalizzazione delle sue norme autonome» [Th. W. Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino 1994, p. 179]). La verità dell’individuo non sta di contro alla socialità. Al contrario, egli «diventa tanto più ricco, quanto più si dispiega liberamente nella società e la rispecchia, mentre la sua definizione e cristallizzazione, che esso rivendica come origine, non fa che limitarlo, ridurlo e impoverirlo» (ivi, p. 181).