Il soggetto tra digitalizzazione delle masse, governamentalità algoritmica e spettacolo partecipato


Questo testo connette tre diversi concetti che negli ultimi anni sono stati considerati utili a cartografare i lineamenti fondamentali del capitalismo digitale e dei dispositivi di potere che lo tengono in forma: “digitalizzazione delle masse”, “governamentalità algoritmica”, e “spettacolo partecipato”. Con Gilles Deleuze, i concetti sono qui intesi come arnesi filosofici fabbricati allo scopo di costruire “piani sul caos”1. Concatenandosi tra loro, cioè, i concetti possono funzionare come “zattere” che – dopo averlo cartografato – ci aiutano a navigare “nel caos” del tempo presente2. Parte integrante di questo caos – ha sostenuto Etienne Balibar – è una “catastrofe informatica” tutta interna alla policrisi del nostro tempo: una catastrofe da intendersi in senso etimologico come quel “rovesciamento brutale dell’ordine e del senso delle nostre azioni e dei nostri reciproci rapporti” che, generando nuovi dispositivi di potere e nuove forme della soggettività, ha prodotto una “trasformazione dell’umano, o della sua istituzione, senza equivalenti nel recente passato”3.

  1. Digitalizzazione delle masse

Il concetto di “digitalizzazione delle masse” è stato coniato dal sociologo neo-francofortese Lelio Demichelis, che lo ha utilizzato in un suo libro recente per spiegare il modo in cui il tecno-capitalismo tende oggi a sussumere l’intera vita ai dispositivi di valorizzazione del capitale e, prima ancora al “sistema automatico/amministrativo della tecnica”4. Il concetto richiama esplicitamente quello di “nazionalizzazione delle masse”, coniato nel 1975 dallo storico tedesco George L. Mosse per indagare le radici ottocentesche dei regimi totalitari del XX secolo. I processi di nazionalizzazione delle masse riflettevano la necessità di contrastare la crescente coscienza di classe delle moltitudini proletarie prodotte dal capitalismo industriale, attraverso una loro integrazione disciplinata e controllata nell’ordine societario e nelle strutture produttive necessarie all’accumulazione del capitale. Le masse avrebbero quindi dovuto “identificarsi con i valori borghesi” e integrarsi “con il collettivo-nazione”, celebrandolo come “valore assoluto”5. Per Mosse è grazie a “una mistica nazionale” fatta di forme cultuali, miti, riti collettivi, feste pubbliche, esercizi spirituali e narrazioni para-religiose che la “folla incomposta del popolo divenne […] un movimento di massa concorde nella fede dell’unità popolare”6. Irregimentata cioè da un potere di tipo pastorale, la massa veniva prodotta e riprodotta come una soggettività spettatoriale “greggificata”, cioè passiva rispetto a processi di estetizzazione della politica che miravano non solo a plasmare l’immaginario collettivo – generando “un nuovo senso di comunione” – ma anche a normare e a normalizzare l’esistenza di milioni di individui7.

Al netto delle ovvie e molteplici differenze, per Demichelis anche i processi di digitalizzazione delle masse allestiscono un pervasivo – e ancora più pervasivo – dispositivo di controllo sui viventi. Nella rete però la posizione centrale non è occupata dall’estetizzazione della politica, ma da quella che Demichelis chiama l’“estetica ludica e libidinale della tecnologia”8. La seduzione delle masse non passa più dalle promesse di bellezza, grandezza e eccezionalità veicolate dalla religione laica della politica, ma dalla capacità della “religione tecno-capitalista” di proporre ogni giorno “qualcosa di eccezionale e di esaltante”9. Nuovi pc, app, social, videogiochi, bitcoin, realtà aumentata, metaverso, assistenti virtuali, ChatGPT, AI, etc. offrono “l’illusione mistica di una vita completa, connessa con tutti e condivisa con tutti”10. Lo spettacolo della rete promette così di compensare le miserie di una vita sempre più segnata da precarietà, routine performativa e funzionalità individuale al sistema. I social network – scrive Demichelis – sono “meta di un pellegrinaggio” virtuale e compulsivo per masse digitalizzate che praticano il “culto della connessione/integrazione”11. Ed è questo che permette di aprire sempre nuove vie all’accumulazione tecno-capitalista12.

Il tecno-capitalismo è per Demichelis un dispositivo di potere-sapere che fonde “l’universale della tecnica e l’universale del capitale, attraverso la mediazione empirica (ma determinante) dell’elettronica”13. Si configura poi come “un’immensa fabbrica di uomini” dentro la quale i soggetti vengono socializzati nella forma volatile dello “sciame”14. Secondo il filosofo coreano Byung-Chul Han – l’inventore di questo concetto – gli individui che compongono lo sciame digitale non sviluppano mai un “Noi”15. Demichelis sostiene invece che nella rete lo sciame si comporta “come un sol uomo” composto da tanti homines digitales16.Aggregandosi temporaneamente in un “Noi”, essi diventano dati, “merce e risorsa economica”17. Intanto, dal momento che secondo Demichelis i soggetti che provvisoriamente si aggregano nello sciame possiedono un’anima (contrariamente a quanto pensa Han, per il quale diversamente dalle folle analizzate da Gustave Le Bon lo sciame digitale non ha anima alcuna), essi sperimentano anche una forma di vita spirituale. Vivono cioè “la spiritualità del social, del like e del dover essere connessi per sentirsi parte di qualcosa”18. Lo sciame è certamente un’entità che si dissolve altrettanto rapidamente di quanto si sia formata, ma per un lasso di tempo più o meno breve resta comunque aggregata. Farne parte, cioè, presuppone “l’adesione a un’ideologia collettiva che prescrive di entrare in un’anima collettiva”: l’anima “religiosa-totalitaria del tecno-capitalismo” che, come apparato, per Demichelis matura una sempre crescente capacità di legare i soggetti tra loro e a sé19. L’idea è che il mercato e la tecnica siano poteri pastorali, religiosamente capaci di governare i soggetti attraverso la connessione: connettendoli cioè tutti in rete come un gregge e stimolando in ciascuno di loro il dover/voler essere connesso20.

In questo senso la digitalizzazione delle masse è “la trasformazione degli individui in funzione degli algoritmi”: potenze che “dettano le norme dell’agire sociale (e anche privato)”21. Lo sciame digitale è l’effetto di parziale ricomposizione e integrazione di una moltitudine di individui prima “divisi e isolati nella logica della divisione del lavoro, di sé stessi e della vita”, e poi “riunificati/integrati e sussunti” nella “rete-fabbrica integrata”22: dove, per dirla con Raniero Panzieri, prende forma un nuovo e più pervasivo “uso capitalistico delle macchine”, oltre che un efficace processo di lavorizzazione dell’agire umano e un continuo processo di aggregazione di “folle/sciami di consumatori apparentemente sempre instabili e sempre provvisori, ai quali è garantito un volare/consumare instancabile tra le offerte del mercato (nella fabbrica del consumare)” 23. Diversamente dalle logiche praticate nella nazionalizzazione delle masse, sui social e nelle piattaforme le pulsioni non vengono più represse. Le masse digitalizzate sono invece sollecitate e messe al lavoro secondo una logica di adesione e di auto-attivazione soggettiva che punta a integrare ogni individuo “in una organizzazione eterodiretta” che ne controlli l’attività24. Per Demichelis, la sostanza della digitalizzazione delle masse consiste quindi nel fatto di rendere quotidianamente possibile che miliardi di singoli individui vengano “connessi/massificati da remoto”25. A tale scopo essa non opera più in primo luogo attraverso la disciplina, anche se quando serve può ricorrervi. La digitalizzazione delle masse agisce invece in modo governamentale, poiché il governo dei viventi digitali avviene in buona misura attraverso l’esercizio della loro libertà. Questa non va repressa, ma orientata e diretta: in una parola, appunto, governata. Perché il processo di estrazione del valore abbia luogo è infatti necessario che gli homines digitales si sentano liberi e, a loro modo, lo siano. Solo così le loro condotte di rete potranno essere governate e algoritmicamente guidate lungo i sentieri della valorizzazione capitalista.

Miliardi di libere condotte individuali e relazionali devono cioè poter generare ogni giorno un’enorme quantità di dati: dati che sono la vera ragion d’essere dell’intera macchina e che rappresentano quanto “resta della vita espropriata, resa trasparente al potere”26. Affinché le piattaforme possano conseguire questo scopo, l’individuo digitale – anche se viene sistematicamente massificato – dovrà poter conservare in rete una sua identità privata. L’estrazione del valore dalla sua condotta richiede quindi che egli si muova incessantemente in rete, auto-attivandosi dentro il dispositivo tecno-capitalista. E che lo faccia volontariamente, dando forma a una riedizione aggiornata di quella che nel XVI secolo Étienne de La Boétie definiva “servitù volontaria”27. Nessuno infatti è costretto “a sottoporsi alle regole e all’ordine del discorso dei social network”28. Al loro interno le libertà di parola e di espressione non sono soltanto garantite, ma anche incentivate. I soggetti devono cioè poter accedere liberamente alla Rete e altrettanto liberamente sottoporsi alla “cessione dei dati personali”, in cambio dell’uso apparentemente gratuito di servizi, app e software. Se così non fosse – ha sostenuto Benedetto Vecchi – sarebbe impossibile mettere le mani sul “dono gratuito della socialità scambiata in rete”, ossia sulle attività algoritmicamente governate da cui provengono i dati29.

  1. Governamentalità algoritmica

Il concetto di governamentalità algoritmica è stato coniato oltre dieci anni fa, sulla scia di Foucault, dal filosofo Thomas Bernes e dalla filosofa e giurista Antoinette Rouvroy30. Essi hanno sostenuto che ai grandi attori del web non interessa tanto la soggettività individuale delle moltitudini che affollano la rete, quanto le “tracce digitali infra-individuali di sfaccettature impersonali, disparate, eterogenee e dividualizzate” che possono essere estratte dalle loro interazioni31. È questo il target della governamentalità algoritmica: una modalità dell’esercizio del potere che non ha più per oggetto l’individuo in quanto tale, ma la vita di rete infra e inter-individuale, ossia una specifica modalità della vita che, nella sua infinita calcolabilità, comparabilità, indicizzabilità e intercambiabilità, può essere frammentata dagli algoritmi in miriadi di dati.

Quello algoritmico è quindi, secondo Bernes e Rouvroy, “un modo inedito di governo perlopiù alimentato da segnali infra-personali, senza significato ma quantificabili (dati grezzi e metadati)”32. La governamentalità algoritmica non si rivolge agli individui attraverso la loro comprensione e la loro volontà di soggetti ma “attraverso i loro profili”, che sono “modelli comportamentali prodotti su base puramente induttiva”33. La governamentalità algoritmica non mira cioè a governare i soggetti “individualizzandoli, identificandoli, tracciandoli personalmente”, ma agisce su “dati anonimi correlabili con altri dati anonimi in modo tale da formare profili di comportamento” e da anticipare comportamenti futuri34. Il capitalismo digitale guarda quindi oltre l’orizzonte temporale delle vite presenti, perché il campo di azione del potere algoritmico “non è situato nel presente, ma nel futuro a venire”35. Insomma, alla governamentalità algoritmica non interessa produrre la soggettività degli individui, come facevano le vecchie istituzioni della società disciplinare: essa non punta tanto a “rendere i corpi docili in relazione alla norma, quanto a rendere le norme docili in relazione ai corpi”36. Alla governamentalità algoritmica non interessa l’individuo inteso come soggetto sovrano, il soggetto indiviso e indivisibile della modernità occidentale. E questo disinteresse per l’individualità delle vite le conferisce “una grande aura di imparzialità, ma anche una sorta di incontestabilità”37. In questo modo può meglio concentrarsi sulla “dimensione dividuale” (ossia divisa e divisibile) delle singole esistenze e di quella collettiva: la dimensione da cui vengono prodotti senza posa pacchetti di “dati infra-individuali insignificanti in sé” ma estraibili, profilabili e vendibili sul mercato a istituzioni statali e ad aziende private38.

Come si diceva, però, perché ciò accada c’è bisogno “di una certa complicità da parte degli utenti”, dei consumatori della rete, degli individui – questa volta sì: quegli individui dalle cui condotte e dai cui comportamenti l’algoritmo peraltro impara diventando sempre più efficiente39. Serve cioè un’“adesione pulsionale” degli individui alle tecnologie social e alle piattaforme digitali: un’adesione che li “spinga a rilasciare continuamente tracce e dati”, ovvero la materia prima della governamentalità algoritmica40. Paolo Vignola ha sottolineato che questa adesione pulsionale nasce dal “rifiuto di condizionamenti trascendenti (establishment, autorialità, disciplinamenti, gerarchie fisse, ecc.)” e prende forma in nome della libertà e “di un’orizzontalità degli scambi e delle connessioni”41. In questo senso – come ha sostenuto anche Rouvroy – la governamentalità algoritmica sembra inverare “il sogno dell’immanenza”, realizzando definitivamente “alcuni degli ideali ereditati dalla critica degli anni Sessanta e Settanta”42. Capitalizzando la forza di quella critica, la governamentalità algoritmica ne ha capovolto però il significato e ha realizzato “una radicale forclusione degli ideali di emancipazione”43.

L’adesione pulsionale si ottiene però anche ricorrendo alla forza attrattiva del mito. Per questo – come ha osservato Fulvio Carmagnola attualizzando le note analisi di Furio Jesi44 – spesso le piattaforme social funzionano come “macchine mitologiche” che veicolano fantasmagorie di rete capaci di placare temporaneamente la fame di miti diffusa45, di plasmare l’immaginario e di produrre “forme condivise di feeling”, inducendo nei soggetti un godimento privato e narcisistico che Lacan chiamava il “godimento dell’idiota”46. Si potrebbe forse sostenere che nel capitalismo digitale, spingendo continuamente la vita digitalizzata all’estetizzazione di sé e a una costante vetrinizzazione, i social network fanno del narcisismo la base stessa dell’estrattivismo47. Così, senza più ricorrere alle discipline, alla censura o alla coercizione, per la governamentalità algoritmica è più facile alimentare la biofagia e la cronofagia delle piattaforme. Che catturano la vita e il tempo di vita dei singoli internauti, scomponendoli in “semplici aggregati temporanei di dati infra-personali metabolizzati su scala industriale”48.

Per raggiungere l’obiettivo la governamentalità algoritmica deve dare forma a “un ambiente che guida senza vincolare, indirizza senza obbligare”, in modo tale che le condotte di rete vengano lasciate agire per poi essere processate dagli algoritmi49. La governamentalità algoritmica opera cioè “attraverso la libertà e l’autonomia”, generando l’ambiente in cui i liberi comportamenti individuali potranno essere presi e ridotti a frattali da profilare50. Per questo è così importante che, mentre la dimensione dividuale dei soggetti viene destinata alla produzione del valore, gli individui che navigano sulle piattaforme possano sentirsi liberi e attori mentre sono invece governati e spettatori. O forse – segnalando una novità rispetto alla società dello “spettacolare integrato” descritta 36 anni fa da Guy Debord51 – potremmo definirli spett-attori, perché è la loro partecipazione attiva che permette di sottomettere alla presa biofagica delle piattaforme ampie quote di tempo di cervello umano disponibile: quote pienamente sussumibili ai poderosi processi di valorizzazione attivati dal capitalismo digitale.

  1. Spettacolo partecipato

In questo senso, parafrasando Guy Debord, è forse possibile sostenere che nella nostra società dello spettacolare partecipato “l’alienazione dello spettatore di rete si esprime così: più l’individuo naviga meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del web, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio”52. La sostanza del concetto di “spettacolo partecipato” può essere ricavata da un libro recente, esplicitamente debordiano, in cui i due teorici sociali Jeremiah Morelock e Felipe Ziotti Narita hanno sostenuto che la società digitale porta a maturazione lo spettacolo di cui parlava Debord. Con il situazionista francese, Morelock e Narita non intendono lo spettacolo come “un insieme di immagini” ma come “un rapporto sociale tra individui mediato dalle immagini”53. I due studiosi sostengono infatti che fin dal XIX secolo, attraverso la stampa, la radio, il cinema, la tv e i media digitali, le immagini (e le immagini della merce) hanno progressivamente avvolto la società con il loro “incantesimo ipnotico”: l’hanno sussunta “sotto il dominio dello spettacolo”, che ha accompagnato come un basso continuo l’affermazione transnazionale del capitalismo54. Sovrapponendo al mondo sensibile “una selezione di immagini che esiste al di sopra di esso, e che simultaneamente si è fatta riconoscere come il sensibile per eccellenza”, lo spettacolo ha portato cioè a compimento il marxiano feticismo della merce55. E ha realizzato quel “divenir-mondo della merce, che è nello stesso tempo il divenir-merce del mondo”56.

Per Morelock e Narita, nella società digitale questi processi si amplificano. La connessione è ora possibile 24 ore su 24 e 7 giorni su 7. Non esistono più momenti e luoghi “in cui non si possa acquistare e consumare attraverso superfici e immagini digitali”57. Nella società digitale lo spettacolo si decentralizza e si estende58. Diventa più “partecipativo” e “democratico” di quanto fosse nell’industria culturale top-down teorizzata da Horkheimer e Adorno59. In una condizione di “bassa compresenza disincarnata”, come quella che comporta principalmente la pubblicazione di post e risposte (condivisioni, like, follow), tutti possono partecipare allo spettacolo non più solo come spettatori ma anche “come produttori e come immagini60. Tutti possono diventare “prosumer algoritmici”: produttori e consumatori di testi, suoni, immagini, video, che da un lato “alimentano le piattaforme condividendo e producendo i propri contenuti” – oltre che dati –, ma dall’altro vengono sistematicamente “alimentati dagli algoritmi con contenuti personalizzati”61. Prende così forma uno spettacolo partecipato nel quale, in ogni momento e in ogni luogo, chiunque può costruire, trasmettere e promuovere la propria immagine di sé62. Ma, pur auto-attivandosi in permanenza, i nuovi prosumer restano in una condizione di interpassività spett-attoriale63. La loro condotta digitale è infatti governata dagli stessi algoritmi dei quali gli spett-attori contribuiscono ad affinare il funzionamento, secondo la logica del machine learning64. Nei social media i prosumer algoritmici sono un po’ attori e un po’ spettatori. Generano sempre nuove “forme di relazione per immagini” che poi diventano la realtà nella quale tutti restano immersi come spettatori65. Queste relazioni hanno per protagonisti i “sé spettacolari”: immagini ideali e mutevoli di sé che gli homines digitales proiettano quotidianamente per gestire l’impressione altrui in modo da poter essere riconosciuti, valorizzati e, nel caso degli influencer, celebrati66.

Morelock e Narita osservano opportunamente che questi processi della società digitale si sono affermati negli ultimi tre decenni mentre il neoliberalismo si imponeva come ragione di governo e forma di vita, prescrivendo agli individui di fare della propria vita una piccola impresa, di diventare competitivi e vincenti, creativi e flessibili67. “Il neoliberalismo e il digitale – scrivono i due studiosi – si sono plasmati a vicenda in modo integrale”68. La società digitale si è cioè innestata sulla cultura d’impresa radicata nelle moltitudini dall’ordine neoliberale, amplificando l’enfasi sull’individuazione e sull’esposizione di sé. Il neoliberalismo si era affermato negli anni ’80 e ’90 spoliticizzando le istanze di creatività, libertà e autogoverno dei movimenti degli anni ’60 e ’70, sussumendole all’assiomatica del mercato e agli “imperativi della prestazione, dell’auto-imprenditorialità, della competizione”69. Verso la fine del primo decennio del XXI secolo il Web 2.0 ha messo a frutto questa nuova configurazione antropologica, avviando e affinando i processi di costruzione del sé spettacolare. E così miliardi di soggetti socializzati all’ideologia neoliberale, in molti casi già interiorizzata, si sono auto-attivati nella corsa in rete “per diventare merce pregiata”70: un obiettivo perseguibile solo facendosi apprezzare (anche nel senso di aumentare il valore del proprio prezzo). A questo scopo occorreva quindi costruire un’immagine digitale di sé performativa, suadente, dinamica, eccentrica o coerente, a seconda dell’esistenza o della professione svolta. Nel nuovo spettacolo partecipato ha quindi assunto un ruolo centrale quella che Morelock e Narita chiamano “gestione neoliberale delle impressioni”71.

Nello spettacolare partecipato è cioè giunta a maturazione la cultura del self-marketing e del self-branding. Quello che già nella seconda metà degli anni ’40 Erich Fromm chiamava “orientamento al marketing” (marketing orientation), ossia la propensione a vivere se stessi come oggetti da pubblicizzare e da vendere sul mercato delle personalità, si è realizzato pienamente nei social media72. Qui infatti i singoli partecipano riflessivamente alla costruzione strategica del proprio sé spettacolare e alla sua puntuale esposizione on line. Gli spett-attori sono cioè impegnati in un “progetto riflessivo continuato” che mira a produrre e a gestire le impressioni altrui mentre alimenta “un bazar di sé spettacolari in mostra per tutti e per nessuno allo stesso tempo”, nel quale si approfondisce a dismisura la frammentazione della sfera pubblica73. Ciò accade anche perché in quel “progetto riflessivo continuato” gli homines digitales si soggettivano perlopiù come monadi in concorrenza: come tanti imprenditori di se stessi che – desiderosi di risultare attrattivi, di avere successo o, più modestamente, di restare a galla nella società digitale (il cui piano di immanenza è da tempo diventato decisivo) – investono sulla propria immagine e mirano a massimizzare il proprio capitale umano74, impegnandosi nella manutenzione costante del proprio sé spettacolare. Le piattaforme aiutano in ciò gli homines digitales: forniscono infatti misurazioni metriche che indicano la popolarità e il valore delle immagini spettacolari di sé che di volta in volta vengono prodotte. Così le espressioni di attenzione e approvazione vengono monitorate algoritmicamente diventando “astrazioni misurabili”75. E controllando assiduamente i loro dispositivi di connessione, gli homines digitales – “soli ma insieme”76 – possono “tracciare se stessi per migliorarsi”, per meglio auto-spettacolarizzarsi e per auto-valorizzarsi cercando al contempo di orientare il desiderio e le impressioni degli altri spett-attori77.

Così accade ad esempio ai giovani precari che lavorano nella gig o nella platform economy, a cui serve veicolare un’immagine digitale positiva di sé che attragga datori di lavoro disponibili a impiegarli in futuro; così accade alle tante tate che mantengono un profilo fotografico su care.com, dove l’algoritmo monitora le valutazioni dei genitori che le hanno assunte in passato; e così accade, naturalmente, agli studiosi in carriera che costruiscono il loro sé spettacolare su siti come Academia.edu o ResearchGate. Lo spettacolare partecipato è quindi un “regime economico del desiderio” in cui gli homines digitales cercano di catturare e incanalare il desiderio altrui a seconda dell’investimento che compiono sulla propria immagine digitale78. In questi giochi di concorrenza più si cattura l’attenzione altrui, più cresce il capitale umano, più aumenta il valore del proprio sé spettacolare. È una logica individualizzante e meritocratica in cui gli homines digitales sono ritenuti i soli responsabili dei loro risultati. Nel Web 2.0 questa soggettivazione neoliberale si fa pervasiva e tende a imporre la razionalità competitiva in tutti gli ambiti della vita collettiva. Tutti tendono a farsi “manager della propria vita nel lavoro, nel gioco, nel relax, nell’amore” 79. Tutti tendono a divenire “capitalisti umani” 80.

Lo spettacolare partecipato è un rapporto sociale mediato dalle immagini e dalle tecnologie digitali, in cui la ragione neoliberale si amplifica e il dominio della valorizzazione capitalistica si estende. Al suo interno l’immagine di sé amplifica infatti il suo “valore spettacolare” e la visibilità stessa della vita produce valore a partire dalla sua potenza di produrre dati81.

Conclusione

Come dichiarato in apertura, in questo testo si è cercato di connettere i concetti di digitalizzazione delle masse, governamentalità algoritmica e spettacolo partecipato in un unico “piano sul caos”: un piano di immanenza che mira a cartografare, almeno parzialmente, alcuni modi di esercizio del potere nel capitalismo digitale. Una simile cartografia potrà risultare utile, però, soltanto in due casi. In primo luogo se servirà a riprendere, e ad aggiornare ai tempi della “catastrofe informatica” richiamata in avvio, il problema classico del rapporto tra il potere e la vita: il problema foucaultiano del “biopotere”. In secondo luogo, se fungerà da base per nuovi studi in grado di individuare le crepe che potranno aprirsi nei dispositivi del capitalismo digitale: crepe lungo le quali favorire l’insinuarsi di molteplici resistenze al potere algoritmico. In una prospettiva critica, in fin dei conti, studiare il governo algoritmico delle vite significa pur sempre rilanciare la questione dell’assoggettamento materiale degli individui e quella dei processi di soggettivazione collettiva (o delle pratiche individuali di libertà) capaci di opporsi credibilmente al moloch solo apparente del capitalismo digitale82.

1 G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia, Torino, Einaudi, 1991, p. 212.

2 Ivi, p. 221.

3 E. Balibar, Sur la catastrophe informatique: une fin de l’historicité?, in “Les Temps qui restent”, 1, 2024, on line. Sul concetto di policrisi, coniato in E. Morin e A. B. Kern, Terre-Patrie¸ Paris, Seuil, 1993, cfr. A. Tooze, Welcome to the world of the polycrisis, in “Financial Times”, 28 aprile 2022.

4 L. Demichelis, La società fabbrica. Digitalizzazione delle masse e Human Engineering, Roma, Luiss, 2023, p. 262.

5 Ibidem.

6 G. L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1812-1933), Bologna, Il Mulino, 1975, p. 26.

7 Ivi, p. 31.

8 L. Demichelis, La società fabbrica, cit., pp. 266-267.

9 Ivi, p. 267.

10 Ibidem.

11 Ivi, pp. 269-270.

12 È stato del resto lo stesso Zuckerberg a sostenere che “i social network possono favorire la creazione di una comunità globale”: una comunità che si rivela interamente funzionale alla valorizzazione del capitale (ivi, p. 265).

13 C. Galli, Intervento al seminario Digitalizzazione delle masse e human engineering, in “Casa della cultura”, Milano, 1 giugno 2023, You Tube, on line.

14 Ibidem e C. Galli, Democrazia, ultimo atto?, Torino, Einaudi, 2023, pp. 106-112.

15 B-C. Han, Nello sciame. Visioni del digitale,Roma, Nottetempo, 2015, p. 22.

16 L. Demichelis, La società fabbrica, cit., p. 213.

17 Ivi, p. 213.

18 Ibidem.

19 Ibidem.

20 Sul punto cfr. Id., La religione tecno-capitalista. Suddividere, connettere e competere dalla teologia politica alla teologia tecnica, Milano, Mimesis, 2015, in cui l’autore sviluppa le intuizioni contenute in W. Benjamin, Capitalismo come religione (1921), Genova, Il Melangolo, 2013.

21 C. Galli, Democrazia, ultimo atto?, cit., p. 108.

22 L. Demichelis, La società fabbrica, cit., p. 212.

23 Ivi, p. 214 e p. 221-232, dove Demichelis riprende e attualizza R. Panzieri, Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, in “Quaderni rossi”, 1, 1961, pp. 53-73 e Id. Plusvalore e pianificazione. Appunti di lettura del Capitale, in “Quaderni rossi”, 4, 1964, ora entrambi in Id. Il lavoro e le macchine. Critica dell’uso capitalistico della tecnologia, a cura di A. Cengia, Verona, Ombre Corte, 2020. Sulla “lavorizzazione dell’agire umano”, cfr. R. Alquati, Lavoro e attività. Per un’analisi della schiavitù neomoderna, Roma, Manifestolibri, 1997, pp. 84.

24 L. Demichelis, La società fabbrica, cit., p. 273.

25 Ivi, p. 275.

26 C. Galli, Democrazia, ultimo atto?, cit., p. 108.

27 E. de la Boétie, Discorso sulla servitù volontaria (1576), Milano, Feltrinelli, 2014. Sul punto cfr. T. Ménissier, La servitù volontaria nella società algoritmica, in “Filosofia politica”, 1, 2022, pp. 85-100.

28 B. Vecchi, Il dolente risveglio degli Avatar, in “Il manifesto”, 12 aprile 2016, che recensisce Ippolita, Anime elettriche. Riti e miti social, Milano, Jaca Book, 2016.

29 Ibidem. Di Vecchi, cfr. anche Il capitalismo delle piattaforme, Roma, Manifestolibri, 2017, pp. 55-60.

30 Cfr. T. Bernes, A. Rouvroy, Gouvernementalité algorithmique et perspectives d’émancipation. Le disparate comme condition d’individuation par la relation ?, in “Resaux”, 1, 2013, pp 163-196.

31 A. Rouvroy, The end(s) of critique: data-behaviourism vs. due-process, in M. Hildebrandt, E. De Vries (eds.), Privacy, Due Process and the Computational Turn. Philosophers of Law Meet Philosophers of Technology, London, Routledge, 2013, p. 157 (corsivo mio).

32 A. Rouvroy, Algorithmic governmentality: a passion for the real and the exhaustion of the virtual. Conference abstract, Berlin, 29 gennaio 2015, in “Academia. Edu”, on line.

33 Ibidem. Per un’importante ripresa del tema, cfr. B. Stiegler, La società automatica. L’avvenire del lavoro (2015), Milano, Meltemi, 2019, pp. 200-222.

34 Rencontre avec Antoinette Rouvroy: la data et les algorithmes; gouvernementalité algorithmique et idéologie des big data, in “Libre à lire”, febbraio 2018, on line.

35 T. Bernes, A. Rouvroy, Gouvernementalité algorithmique et perspectives d’émancipation, cit., p. 183.

36 A. Rouvroy, B. Stiegler, Il regime di verità digitale. Dalla governamentalità algoritmica a un nuovo Stato di diritto, in “La Deleuziana”, 3, 2016, p. 25, on line.

37 Rencontre avec Antoinette Rouvroy, cit.

38 T. Bernes, A. Rouvroy, Gouvernementalité algorithmique et perspectives d’émancipation, cit., p. 172. Sul punto cfr. S. Baranzoni, P. Vignola, Cosa potrebbe un corpo? Il dividuale e l’individuazione della filosofia contemporanea, in “La deleuziana”, 1, 2015, pp. 158-173.

39 P. Vignola, Il miraggio e le lenti. Immanenza e ingenium all’epoca del Platform Capitalism, in “Esercizi Filosofici”, 12, 2017, p. 117. Sul punto cfr. D. Gentili, Variabili neoliberali dell’ambiente postfordista, in U. Fadini, A. Zanini (a cura di), Postfordismo e oltre, Firenze, Clinamen, 2023, p. 31.

40 Ibidem.

41 Ibidem.

42 A. Rouvroy, A few thoughts in preparation for the Discrimination and Big Data conference organized by Constant at the CPDP, Brussels, 22 january 2015, in “Academia.edu”, on line.

43 Ibidem.

44 Cfr., ad esempio, F. Jesi, Mito (1973), Milano, Mondadori, 1980 e Id., Materiali mitologici. Mito e antropologia nella cultura mitteleuropea (1979), Torino, Einaudi 2001.

45 Jesi sosteneva che la macchina mitologica offre “cibo mitologico” fornendo “soddisfazione temporanea e parziale” all’“affamato” che quel cibo “brama”. In questo senso, per lui, la macchina mitologica era essenzialmente “un ordigno che con la sua presenza funzionante, «vitale», dà tregua alla fame di miti senza mai soddisfarla interamente”. F. Jesi, Materiali mitologici, cit., p. 111.

46 F. Carmagnola, Essere e gadget. La macchina del sentire, Milano, Meltemi, 2019, p. 143; J. Lacan, Il seminario. Libro XX. Ancora 1972-1973, Torino, Einaudi, 2011, p. 76.

47 Sul punto cfr. V. Codeluppi, Vetrinizzazione. Individui e società in scena, Torino, Bollati Boringhieri, 2021 e Id., Narcisismo e vetrinizzazione sociale, in N. Strizzolo, Narcisismo 2.0 ?Tra cultura, comunicazione e web society, Fisciano, Gutenberg Edizioni, 2020, pp. 9-13.

48 A. Rouvroy, L’usage de “big data” pour gouverner, in “Politique”, 112, 2020, on line. Sul punto cfr. l’introduzione e i saggi di contenuti in V. Estremo, F. Giordano, M. T. Soldani (a cura di), Cronofagia e media. La gestione del tempo fra cinema, arti visive, tv e web, Milano, Meltemi, 2024, in particolare J-P. Galibert, Iperlavoro e cronofagia. L’envoûtement ipercapitalista come tempo di lavoro immaginario del consumatore, pp. 33-42.

49 D. Cardon, Gli algoritmi sono un tema politico, in “Corriere della sera”, 24 agosto 2016.

50 Ibidem. Per un approfondimento cfr. Id., Che cosa sognano gli algoritmi. Le nostre vite al tempo dei big data, Milano, Mondadori, 2016.

51 G. Debord, Commentari alla società dello spettacolo (1988), in Id., La società dello spettacolo, Firenze, Baldini&Castoldi, 2006, pp. 193-197.

52 Ecco il brano di Debord: “l’alienazione dello spettatore a beneficio dell’oggetto contemplato […] si esprime così: più egli contempla meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio” (ivi, p. 63). Ho approfondito il tema in A. Simoncini, Vecchi e nuovi scenari dello spettacolo, in Id., Società della merce, spettacolo e biopolitica neoliberale, Milano, Mimesis, 2022, pp 193-223.

53 G. Debord, La società dello spettacolo, cit., p. 54.

54 J. Morelock, F. Ziotti Narita, The Society of the Selfie. Social Media and the Crisis of Liberal Democracy, London, University of Westminster Press, 2021, p. 22.

55 G. Debord, La società dello spettacolo, cit., p. 83. La merce – scrive Debord – è un’“illusione effettivamente reale, e lo spettacolo la sua manifestazione generale” (ivi, p. 72). Marx descrive il feticismo della merce in K. Marx, Il Capitale (1867), libro primo, Roma, Editori Riuniti, 1973, pp. 84-97. Sul punto, cfr. A. Jappe, Les aventures de la marchandise. Pour une nouvelle critique de la valeur, Paris, Denoel, 2003 e, con approcci diversi, A.M. Iacono, Teorie del feticismo. Il problema filosofico e storico di un “immenso malinteso”, Milano, Giuffrè, 1985; Id., Studi su Karl Marx. La cooperazione, l’individuo sociale e le merci, Pisa, ETS, 2018, pp. 101-118; E. Balibar, La filosofia di Marx, Roma, Manifestolibri, pp. 69 e ss.

56 G. Debord, La società dello spettacolo, cit., p. 24.

57 J. Morelock, F. Ziotti Narita, The Society of the Selfie, cit., p. 29 e J. Crary, 24/7: Late Capitalism and the Ends of Sleep, New York, Verso, 2013 p. 22.

58 Sul punto cfr. anche O. Frayssé, Guy Debord, a Critique of Modernism and Fordism: What Lessons for Today?, in M. Briziarelli, E. Armano (a cura di), The Spectacle 2.0: Reading Debord in the Context of Digital Capitalism, London, University of Westminster Press, 2017, pp. 67-80.

59 T. W. Adorno, M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, 2010, pp. 126-181.

60 J. Morelock, F. Ziotti Narita, The Society of the Selfie, cit., pp. 40 e 26.

61 E. Risi, R. Pronzato, Algorithmic Prosumers, in E. Armano, M. Briziarelli, E. Risi (a cura di), Digital Platforms and Algorithmic Subjectivities, London, University of Westminster Press, 2022, p. 158.

62 Sula scia di E. Sadin (Io tiranno. La società digitale e e la fine del mondo comune, Roma, Luiss, 2022), ho sviluppato il tema in Digitalizzazione delle masse e spettacolo partecipato. Note sull’immagine di sé nella società digitale, in “Altraparola”, 10, 2023, pp. 69-73.

63 Mutuo il concetto di “interpassività” da Mark Fisher (Realismo capitalista, Roma, Nero, 2017), secondo cui “l’essere imbrigliati nella matrice dell’intrattenimento porta come conseguenza un’interpassività nervosa e agitata, un’incapacità di concentrarsi e focalizzare alcunché” (p. 64); e secondo cui “la simulazione interpassiva della partecipazione tipica dei media postmoderni e il narcisismo online di Facebook […] hanno perlopiù generato contenuti ripetitivi, parassitari e conformisti” (p. 143). Steven Best e Douglas Kellner parlano invece di “spettacolo interattivo”. S. Best e D. Kellner, Debord and the Postmodern Turn: New Stages of the Spectacle, in “Substance”, 90, 1999, pp. 129-156.

64 È dalle condotte degli internauti che l’algoritmo impara, diventando sempre più efficiente. Cfr. A. Rouvroy, La governamentalità algoritmica: radicalizzazione e strategia immunitaria del capitalismo e del neoliberalismo?, in “La Deleuziana”, 3, 2016, pp. 30-36.

65 J. Morelock, F. Ziotti Narita, The Society of the Selfie, cit., p. 22.

66 Ivi, pp. 16 e 32.

67 Sul punto la letteratura è ormai vastissima. Cfr. almeno P. Dardot, C. Laval, La nouvelle raison du monde. Essai sur la société néoliberale, Paris, La Découverte, 2009; P. Dardot, H. Guéguen, C. Laval, P. Sauvêtre, Le choix de la guerre civile. Une autre histoire du néolibéralisme, Paris, Lux, 2021; W. Brown, Il disfacimento del demos. La rivoluzione silenziosa del neoliberismo, Roma, Luiss University Press, 2023; M. D’Eramo, Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi, Milano, Feltrinelli, 2020.

68 J. Morelock, F. Ziotti Narita, The Society of the Selfie, cit., p. 33.

69 I. Dominijanni, Sintomatologia di un sentiero interrotto, in I. Bussoni, N. Martino, È solo l’inizio. Rifiuto, affetti, creatività nel lungo ’68, Verona, Ombre Corte, 2018 p. 102. Ma sul punto cfr. l’ormai classico L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo (1999), Milano, Mimesis, 2014, con i rilievi critici di P. Dardot, C. Laval, La nouvelle raison du monde, cit., pp.411 e ss.

70 J. Morelock, F. Ziotti Narita, The Society of the Selfie, cit., p. 39.

71 Ibidem e pp. 37-55.

72 E. Fromm, Man for himself. An inquiry into the psychology of ethics, New York, Rinehart, 1947, p. 68, cit. in ivi, p. 42. Per Fromm il carattere orientato al marketing, ben radicato nell’inconscio sociale prodotto dal capitalismo avanzato e dalla società dei consumi, simula empatia e coinvolgimento ma a un livello emotivo profondo produce distacco dagli altri e indifferenza (ivi, p. 112). Sul punto cfr. R. Funk, Erich Fromm: The Courage to Be Human, New York, Continuum, 1982.

73 J. Morelock, F. Ziotti Narita, The Society of the Selfie, cit., pp. 54-55.

74 Secondo le modalità descritte nell’ormai classico M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France, 1978-1979, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 176-193 e preconizzate in G. Becker, Human Capital: A Theoretical and Empirical Analysis, with Special Reference to Education, New York, Columbia University Press, 1964.

75 J. Morelock, F. Ziotti Narita, The Society of the Selfie, cit., p. 41.

76 Sulla scia di Sherry Turkle (Alone Together: Why We Expect More From Technology and Less From Each Other, New York, Basic, 2017), anche Morleock e Narita sostengono che nel Web 2.0 si è “soli insieme”: soli nella dimensione fisica, in cui “come l’uomo dietro la tenda del Mago di Oz” gli individui producono il sé spettacolare digitando, cliccando, strisciando e toccando; insieme, nella dimensione digitale dove i sé spettacolari si incontrano e si scontrano (ivi, p. 54).

77 Ibidem. Come ha sostenuto Deborah Lupton, il combinarsi tra un self-tracking compulsivo finalizzato al miglioramento di sé e la pulsione costante all’auto-imprenditorialità restituisce bene l’ethos della (non) cittadinanza neoliberale. D. Lupton, The Quantified Self: A Sociology of Self-Tracking, London, Polity, 2016, p.

78 J. Morelock, F. Ziotti Narita, The Society of the Selfie, cit., p. 49.

79 Ivi, p. 50.

80 Cfr. R. Ciccarelli, Una vita liberata. Oltre l’apocalisse capitalista, Roma, Manifestolibri, pp. 121-163.

81 J. Morelock, F. Ziotti Narita, The Society of the Selfie, cit., p. 22.

82 Secondo un’ispirazione che proviene da M. Foucault, Perché studiare il potere: la questione del soggetto, in H.L. Dreyfus/P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault. Analitica della verità e storia del presente, Firenze, Ponte alle Grazie, 1989, pp. 237-244.


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