Esser-ci come? automatismo mentale e presenza da remoto.


La vita contemporanea è contrassegnata da un paradosso: viviamo in una società iperconnessa, il mondo del network, dove tutto si comunica in tempo reale, ma nello stesso tempo la solitudine percepita pare crescente.

Proverò a descrivere come si possa perdere la connessione con l’altro, pur essendo in presenza, per effetto di interferenze mentali automatiche come accade nel comune conversare, e come di contro si possa restare connessi con l’altro, anche senza la presenza piena, come accade nelle sedute da remoto.

Un concetto si definisce meglio mettendolo in comparazione con il suo opposto: cosa sarebbe l’ombra senza la luce? Il torto senza il giusto? L’alto senza il basso?

Per definire l’”assenza” dobbiamo necessariamente chiarirci sul concetto di “presenza”.

Presenza, dal participio latino praesens- praesentis significa essere presenti, cioè trovarsi installati fisicamente e mentalmente nel “qui-ed-ora” cioè calati in una situazione che ci convoca responsabilmente al cospetto di qualcuno o di qualcosa (= di fronte a una o più persone, o a un compito, o ad un appello).

L’essere e restare presenti è tutt’altro che una condizione naturale.

Richiede attenzione, concentrazione, capacità di ascolto incondizionato, tutte funzioni abitualmente insidiate da interferenze o parassitismi mentali di vario genere. Per l’umano la condizione “normale” è piuttosto quella della distrazione (= dal latino dis-trahere = essere tratti via da, essere distolti). Nello stato di coscienza ordinario la mente è attraversata da un flusso costante di molteplici percezioni, stimolazioni ambientali, immagini sovrapposte, valutazioni estemporanee, pensieri sotto traccia etc.. una sorta di magma caleidoscopico oscillante tra flash sul passato, stati d’animo attuali, anticipazioni del futuro. Freud ha eletto l’attenzione fluttuante a strumento investigativo per eccellenza, ma si tratta di una disattenzione allenata a rimanere nel campo relazionale con il paziente. Non è nomade. Non elude il contesto come accade nella comune distrazione.

L’animale, diversamente dall’uomo, vive la vita momento per momento in un presente che dura. Lo psicoanalista Andrè Green, nel libro “Narcisismo di vita, narcisismo di morte” descrive il complesso della “madre morta”. Non si tratta di una morte vera e propria ma di una divaricazione che il bimbo può sperimentare tra la presenza fisica della madre e la sua assenza mentale. La madre è fisicamente presente, con il bimbo in braccio, il seno offerto, ma la sua mente è “altrove”.

L’assenza di una madre fisicamente presente è più difficile da intercettare. E’ un’assenza, per così dire, eclissata dal contatto fisico, visivo, tattile, vocale. Un’assenza nascosta, negata nei fatti.

Possiamo descrivere diverse forme di assenza, declinabili nella vita del singolo (quando perdiamo il contatto con noi stessi), nella relazione duale (quando vi è disconoscimento dell’altro), nella vita collettiva (quando un leader o un influencer ci suggestionano al punto di annullare il nostro pensiero critico).

Il poeta Attilio Bertolucci, padre del famoso regista Bernardo, definisce in un verso lapidario (che troviamo in una poesia pubblicata nel 1929 nella raccolta Sirio) il paradosso – opposto al complesso della madre morta – di un essere presenti nell’assenza.

Egli scrive: ”Assenza, più acuta presenza”.

Ecco il dato sorprendente che spariglia le nostre certezze: da un lato si può essere assenti, pur in presenza (=la madre morta) e dall’altro si può sperimentare una presenza, più acuta, più intensa, addirittura dolorosa nell’assenza. Questo accade, ad esempio, nel lutto o nel tradimento. L’altro non è più presente, perché rapito da questo mondo o perché ci ha abbandonato, eppure la sua presenza ci assilla, ci assedia, ci tormenta. Non cede all’oblio, non arretra nella memoria. Nella neurofisiopatologia troviamo descritta la sindrome dell’Arto Fantasma. Un soggetto che abbia subìto un’amputazione può continuare a percepire la gamba mancante non semplicemente come intera e collegata al corpo anatomico, ma addirittura con una sensibilità aumentata: un arto fantasma che diventa ipersensibile, ipertermico, mobile e persino dolorante: “Assenza, più acuta presenza”!

A proposito del lutto afferma S. Agostino: “coloro che abbiamo amato e perduto non sono più dove erano, ma sono ovunque noi siamo”. L’altro non c’è più, ma io continuo a percepirlo “vivo” dentro di me. Assente, eppure presente.

E’ sconcertante: nemmeno la morte, figura radicale dell’assenza, può annullare la relazione e dunque la presenza.

Riporto a titolo di esempio questa breve vignetta clinica.

Seguivo da tempo una paziente per un lutto complicato, incistato, che non conosceva tregua.

Un giorno arriva alla seduta e mi accorgo dal portamento meno ingessato, dall’ abbigliamento meno funereo, dallo sguardo più sereno che sta un po’ meglio.

“Oggi, signora, mi sembra più serena di altre volte. Me lo conferma?”

“Si, dottore, è vero”

“Come mai? E’ successo qualcosa di nuovo?”

“Si…vado al camposanto”

“Beh, non mi sembra una novità…lei ci andava anche prima..”

“Si, ma adesso vado al mattino presto..”

“E cosa cambia?”

“Vado al mattino presto..appena aprono il cancello io entro..”

“e allora..?”

“Dottore, non comprende?”

“Veramente no”

“Beh, a quell’ora non c’è nessuno”

“E quindi..?”

“quindi io posso parlargli…gli racconto le mie giornate, i miei pensieri, i miei dubbi, le mie pene e le mie speranze talvolta, senza che nessuno mi veda o mi ascolti…senza che nessuno mi prenda per matta. A volta gli chiedo consiglio. Lei potrà anche non credermi dottore, ma il consiglio può giungere. Mi è arrivato in sogno. Lui è venuto in sogno e mi ha risposto. O meglio mi ha fatto capire”.

Questo può essere un esempio di un lavoro del lutto giunto a compimento. Naturalmente le cose non vanno sempre così.

Proverò ora a descrivere due figure paradigmatiche dell’assenza in due contesti molto diversi: la “disconnessione automatica”, prodotta da interferenze mentali sia interne che esterne, e la “presenza virtuale”, che si realizza nelle sedute terapeutiche da remoto diversamente da quelle condotte nella stanza dell’analisi.

Scrive l’evangelista Marco ai versetti 13,33-37 : ”Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento”.

Gli automatismi (= comportamenti o stili cognitivi a cui tutti, in grado diverso, siamo assoggettati) in quanto agenti della coazione a ripetere sono al servizio della pulsione di morte. Questa non è da intendere come spinta omicida o suicidaria, ma come una dinamica anti-relazionale e, poiché la vita è relazione, anti-vitale. La relazione infatti presuppone presenza a se stessi e consapevolezza dei propri atti al fine di essere aperti sia “all’altro” (persona) sia “ad altro” (l’evento che sopraggiunge).

La spiritualità nella sua essenza è “vita sorvegliata”, “vita incondizionata”, vita “liberata”, da coazioni, da costrizioni, da compulsioni e richiede un’attenta vigilanza dei moti interiori per non arretrare di fronte alle seduzioni ipnotiche (mediatiche), alle distrazioni (pulsionali o mondane), e soprattutto per non soccombere alla tendenza dissociativa connaturata alla psiche.

La relazione tende ad aggregare, a formare legami, a nutrire i legami di novità in una continua crescita nella reciprocità per creare orizzonti sempre più ampi di condivisione e sinergia. Nella relazione duale questo processo in continuo divenire, si chiama accordo, nell’interazione sociale armonia.

La relazione richiede apertura, l’automatismo chiude. La routine inaridisce. La routine spegne il desiderio di altro.

L’automatismo tende economicamente al risparmio energetico. Più facile lasciarsi agire da inveterate procedure o omissioni. Più comodo far valere punti di vista cristallizzati o abitudini ben collaudate. Più difficile e dispendioso sottoporre il comportamento e il dialogo al vaglio di un’intelligenza critica e creativa che oltrepassi la soglia del “già noto e ripetuto”, finalizzato a ribadire la propria identità (= “reitero ergo sum”), per esporsi invece all’alterità, all’inedito, ad una verginità mentale che metta in risonanza il “tu” e l‘ “io” nel momento del confronto. Si tratta di scegliere, momento per momento, di funzionare come ricetrasmittente nella circolarità del “noi”. Il dialogo “sordo” degenera inevitabilmente in un monologo sterile. Un disco rotto. La ripetizione ostinata di una tesi o di una condotta, o di una omissione blocca l’integrazione, o anche solo l’avvicinamento delle divergenze e lede la plasticità di ogni discorso. Il dialogo si irrigidisce in dibattito. La relazione si congela in cliché.

E’ dimostrato che la consultazione compulsiva dei cellulari, l’utilizzo prolungato dei dispositivi tecnologici, la permanenza in realtà virtuali, favoriscono l’autoreferenzialità, l’autoerotismo cognitivo (= innamorarsi delle proprie convinzioni), il pensiero breve, la frammentazione di ogni discorso, l’impulsività di ogni agire. In sintesi queste prassi nutrono la mente automatica che lavora per zapping anziché per lenta e progressiva elaborazione riflessiva. E l’automatismo conduce alla dipendenza che a sua volta rinforza l’automatismo: si instaura così un circolo vizioso.

”Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento”.

Ma di quale vigilanza si tratta? Non quella del portiere che deve vagliare e filtrare chi arriva, ma piuttosto quella dell’ostetrica che deve acconsentire alla venuta, fare in modo che questa accada, si realizzi. Una vigilanza benedicente, non diffidente.

Ora è chiaro che siamo tutti condizionati da abitudini, imprinting, memorie procedurali, traumi, fattori educativi, pregiudizi, attaccamenti, luoghi comuni che già Bacone, 4 secoli fa, aveva descritto come Idola Mentis e che trovano nella società mediatica contemporanea un eccellente terreno di applicazione e moltiplicazione.

Ma l’interrogativo che si pone a questo punto è il seguente: vogliamo governare gli automatismi o esserne governati?

Il punto decisivo, di svolta, sta nella postura che vogliamo assumere rispetto alla coazione a ripetere che ci possiede. Vogliamo arrenderci a queste “scorie” o “distorsioni” del pensiero assecondandone passivamente la curvatura fatalistica? Vogliamo una resa incondizionata alle interferenze supportata da frasi fatte come: “cosa posso farci?”, “sono fatto così!” “ho sempre agito così!” “ho sempre pensato così!” “è più forte di me!” “mi viene automatico!”

Oppure ci é possibile problematizzare il dato di partenza, l’impronta che mi condiziona, ed assumere un atteggiamento vigilante e in controtendenza?

Il discrimine etico sta proprio nel come scegliamo di atteggiarci: ci lasciamo trascinare dalla corrente, diventando complici di un presunto determinismo, o prendiamo invece la posizione scomoda di sentinelle della mente? Si tratta di un lavoro minuzioso, da orafo, di un impegno certosino che implica un allenamento costante, antieconomico. La vita, come stabilito dalle leggi della termodinamica, sfida l’entropia. La vita è anti-economica e procede in salita verso l’aumento della complessità dei viventi e la diversificazione delle condotte. La logica della vita non è la ripetizione, ma l’innovazione, altrimenti nessuna evoluzione sarebbe possibile.

Eccoci al bivio: stiamo dalla parte di Sisifo, schiavo di una sterile ripetizione o con Spartaco, lo schiavo che rompe le catene per essere libero?

Diventa possibile – domandiamoci – potenziare questa capacità di stare nel presente, momento per momento? “Diventare presente” direbbe Panikkar? Potremmo imparare a giocare la partita della vita con lo spirito della “diretta”?

La vita è una partita a carte. La mano ci è data. Sta però a noi giocarcela. Ci muoviamo tra determinismo e libero arbitrio. Accrescere il grado di libertà è possibile?

Questo esercizio assomiglia ad un’educazione al “risveglio”: un’ascesi che non condurrà all’estinzione totale degli automatismi, ma – come minimo – ad un loro addomesticamento, ad una mitigazione dell’impatto negativo e castrante sulle relazioni. Potrà al meglio favorire un’interazione più sintonica fra gli interlocutori e offrire occasioni per dialoghi più partecipi, meno scontati, più autentici e persino più amabili.

Il salmone non segue la corrente. La risale con enorme fatica. Il salmone non risparmia energia per arrivare alla fonte ove deporre le uova. Il premio sarà per lui raggiungere acque pure, ossigenate e propizie alla fecondità.

Opus contra naturam (“Opera contro natura” ) direbbe C.G. Jung riprendendo il motto degli alchimisti medioevali.

Passerei ora ad illustrare la seconda forma quella della “presenza” cosiddetta virtuale, che preferisco definire “attenuata”.

La pandemia tra le molteplici conseguenze che ha comportato nella nostra esistenza ha avuto anche l’effetto di infrangere il protocollo della seduta in presenza portando molti “professionisti della parola” (non solo psicoterapeuti, ma anche insegnanti, formatori, consulenti etc.) a sperimentare la seduta da remoto, inizialmente come alternativa all’interruzione del rapporto, ma successivamente anche per ovviare a difficoltà logistiche o per assecondare la preferenza dell’utente per questa nuova modalità di incontro più facilmente gestibile.

Generalmente distinguiamo queste due modalità definendo l’una come “reale” e l’altra come “virtuale”, ma si tratta evidentemente di una distinzione impropria perché sono entrambe esperienze reali. Analogamente risulta fuorviante anche la distinzione fra sedute “in presenza” e “non”, perché ogni relazione o semplice contatto genera “presenza” (la “non presenza” è “assenza”!). Più opportuno distinguere tra presenza “in carne ed ossa” e presenza “mediata” (da un medium audio-visivo). Sono entrambi modi della presenza.

A questo proposito ecco come il famoso critico francese Georges Sadoul commentò – siamo all’alba della cinematografia – il cortometraggio dei fratelli Lumière, proiettato il 25 gennaio 1896, che immortalava sulla pellicola il momento dell’arrivo di un treno presso la stazione di La Ciotat, un paese nelle vicinanze di Marsiglia :

“la locomotiva giunge dal fondo dello schermo, avanza sugli spettatori e li fa sussultare dando loro la sensazione che stia per schiacciarli”.

Non sappiamo se, davvero, come si raccontò, qualcuno di loro si alzò per fuggire dalla sala cinematografica, ma certamente fu quello forse il primo effetto documentato di una “realtà aumentata” sugli spettatori.

Di contro, quando nelle prime trasmissioni televisive gli annunciatori dei TG si presentavano a mezzo busto davano ai telespettatori l’impressione di una “realtà amputata”.

Questi due esempi ci dicono qualcosa sulla suggestione che lo schermo, lungi dall’essere un mezzo neutrale, esercita su chi ne fruisce.

Vediamo ora nello specifico alcuni aspetti che marcano delle differenze tra le due tipologie di seduta.

Innanzi tutto consideriamo il senso di “fisicità”. In presenza il terapeuta sente gli odori o i profumi che il paziente porta con sé, inoltre è prossimo ad un corpo caldo che emana energia. Può percepire stimoli sensoriali subliminali o para-liminali, come minime variazioni del ritmo respiratorio, borborigmi, deglutizioni etc. che difficilmente verrebbero captati attraverso uno schermo.

Egli può valutare meglio, in modo cioè più completo e dettagliato, il linguaggio extra-verbale (p.e. può notare che il paziente muove il piede sotto il tavolo). Inoltre ha una percezione tridimensionale e non appiattita del corpo altrui. Sa di potersi avvicinare a chi gli sta seduto di fronte (anche se non lo fa) e perfino di poterlo toccare (anche se non è necessario): questo gli fa sentire l’“altro” come un “oggetto” tangibile e collocato ad una prossimità variabile, condizione opposta rispetto all’effetto vetrina (= distanziamento) prodotto dallo schermo.

Ricordiamo come nelle fasi prodromiche delle psicosi, prima di rifugiarsi in mondi deliranti, i soggetti possono riferire un “effetto-bolla”, una sorta di distanziamento dal mondo circostante, come se fruissero della protezione di uno schermo invisibile che consentisse loro di vedere la realtà circostante attraverso un vetro. Anche persone affette da timidezza riferiscono di trovarsi meno esposte e più rassicurate quando possono intervenire in videoconferenza piuttosto che “dal vivo”.

Tutte queste osservazioni ci orientano a considerare la realtà video-mediata come attenuata, cioè a minore impatto emotivo.

Un altro aspetto riguarda il parlare, o meglio la timbrica della voce.

Si può notare che – da remoto – la voce giunge diversa perché trasmessa solo per via aerea filtrata artificialmente dal microfono e pertanto priva delle risonanze delle cavità corporee che, nel vis a vis, la rendono più carnale, più calda e ricca di sfumature.

Altro aspetto del monitor è quello di aumentare l’autocontrollo: il terapeuta si sente monitorato dallo sguardo ravvicinato del paziente e, contemporaneamente, ha a fuoco (nella finestra piccola) se stesso e il proprio viso mentre sta interagendo. Egli, cioè, è sottoposto ad un doppio videocontrollo che potrebbe inibirne la spontaneità mimico-motoria.

Nella videochiamata, inoltre, si modifica il rapporto figura/sfondo nel senso che quest’ultimo sfuma: ci si focalizza sulla figura (e generalmente solo su una porzione della figura: il volto o il mezzo busto) e si sfuoca il contorno. In questo modo si perdono dettagli e stimoli evocativi che provengono dallo sfondo e che possono influenzare la concentrazione, la distraibilità, l’interazione del soggetto con gli oggetti circostanti. Questa “inquadratura” ristretta può aumentare la fissità mimica, gestuale e posturale di chi parla e mettere enfasi sul contenuto letterale delle parole a discapito della scansione del discorso, delle pause immaginative, dell’andirivieni degli sguardi verso l’ambiente circostante, dell’attenzione fluttuante e soprattutto dei silenzi. I silenzi, proprio per lo stretto e ravvicinato contatto visivo, diventano più difficili da sostenere. Lo sguardo, quasi incombente, esercita una pressione maggiore a “dire” qualcosa.

Non si tratta più di un “vis a vis” distanziato, ma di un vero e proprio “tete-a-tete” di prossimità.

Altro aspetto importante – nella videochiamata – è la mancanza di una introduzione all’incontro. E’ opinione diffusa che la seduta cominci già nel percorso per recarsi dall’analista.

Nella video-chiamata vengono completamente a mancare i preliminari manifesti nella sequenza di arrivo e ingresso nello studio.

Ad esempio: il paziente arriva all’appuntamento in orario, in anticipo o in ritardo? come suona il campanello: con tocco sfuggente, con pressione prolungata oppure nervosa e reiterata? come accede allo studio: è trafelato, rallentato? ha le scarpe sporche? dove si dirigono i suoi primi sguardi? come si siede? ( p.e. all’inizio di seduta un pz. rivela l’allentamento dell’abituale stato di tensione lasciandosi cadere nella poltroncina e dicendo: “scusi dottore mi sono lasciato andare..”).

Nella videochiamata, invece, il contatto scatta a cronometro: un click e in un attimo si è li ! Uno di fronte all’altro, senza alcun preambolo o ritualità introduttiva.

E’ come iniziare la lettura di un libro avendo saltato l’introduzione. Si è catapultati dentro il “discorso”.

Questo vale, ovviamente, anche per il momento di congedo dalla seduta: come si alza il pz. dalla poltrona? nel salutare o muovere i primi passi verso la porta ci comunica più slancio di quando è entrato? oppure non riesce proprio ad uscire e sosta sull’uscio?

Nella videochiamata il sipario scende come una ghigliottina. Un click e i due interlocutori scompaiono nel nulla. Durante tutta la seduta online sia il paziente che il terapeuta hanno il controllo orario costante mostrato dall’orologio sulla barra alta del computer. Un mio paziente riferiva: in presenza non mi accorgo dello scorrere del tempo, online tengo costantemente sotto controllo il tempo. O meglio mi sento controllato dall’orologio.

Tornando sulla fine della seduta e sui riti di congedo possiamo notare come venga totalmente abolito il rito del pagamento. Già l’introduzione del pagamento con carta di credito – ante pandemia – aveva ridimensionato lo scambio “materico” rappresentato dal passaggio di denaro dal portafoglio del pagante alle mani o al tavolo del ricevente, passaggio spesso marcato da valenze semantiche: pensiamo al paziente che prepara ogni volta i soldi contati in una busta, oppure che non ha prelevato la giusta quantità, oppure che attende un cenno di ringraziamento o ancora che indugia a rovistare nelle tasche etc.

Con il bonifico a distanza, questo rito è cancellato e vicariato dal dispositivo tecnologico che provvederà in modo anonimo, asettico, automatico.

Queste procedure digitali configurano il ruolo di “terzo” che il supporto tecnologico è venuto ad assumere nel setting : tra terapeuta e paziente si installa l’attore tecnologico che con le sue variabili modifica radicalmente l’ambiente. Prima della videochiamata ci si chiede se tutto funzionerà bene: vi sarà segnale sufficiente? potranno esserci disconnessioni causa di fermo immagine o di frammentazione dell’eloquio o di annebbiamento visivo? vi potranno essere altre interferenze?

Insomma non si è più in due, ma in tre, e il “terzo incomodo” può generare ansie correlate al timore di non avere pieno controllo sulla comunicazione. E’ probabile che questo aspetto contribuisca al rifiuto radicale da parte di certi pazienti (o terapeuti) ad effettuare sedute on-line. Il paziente può preferire la sospensione del rapporto fino a ripresa della “normalità” piuttosto che cimentarsi in una dimensione che non padroneggia o semplicemente rifiuta.

Un’altra differenza importante della videochiamata è che non si condivide lo stesso setting. Infatti non ci si trova nella stessa stanza.

Il paziente generalmente è a casa dove può squillare il campanello, oppure può sopraggiungere improvvisamente un figlio, o scuocere la pasta, oppure si possono sentire i rumori di un coinquilino etc. L’ambiente è meno controllato e nello stesso tempo rappresenta una confort-zone per il paziente che può favorire atteggiamenti regressivi.

Tuttavia è anche possibile che lo sfondo visibile dell’appartamento possa raccontarci qualcosa del “sé-domestico” del paziente, a discapito però di un’asetticità: certi oggetti/arredi possono distrarre il terapeuta o sollecitare inattese sensazioni/reazioni controtransferali. Anche il terapeuta può trovarsi talora a casa propria facendo venire meno la neutralità dell’ambiente-studio.

In ogni caso non c’è più la condivisione dello stesso spazio, ma solo dello stesso tempo (Non c’è più “hic et nunc” = “qui ed ora” ma “nunc” (ora) senza “hic” o , se preferiamo, “qui e là ed ora”).

Considerazioni di tipo diverso si possono fare invece sulla semplice telefonata che abolendo il campo visivo consente una maggiore vicinanza “d’orecchio”. Ricordiamo che già nel terzo mese di vita intrauterina il feto può ascoltare la voce materna trasmessa per via ossea-vertebrale. I suoni cominciano ad “incidere” nel soggetto molto prima degli stimoli visivi (l’apparato visivo raggiungerà la maturità solo al termine del secondo anno di vita post-natale).

La voce crea più intimità, specie se trasmessa al buio. Pensiamo al colloquio nel confessionale. C’è penombra. I visi si intravvedono appena separati dalla grata. Pensiamo che gli incontri più intimi avvengono al buio e che le persone, quando si baciano, tendono a chiudere gli occhi e a sussurrare parole all’orecchio. Questo spiega perché alcuni colleghi preferiscano alla videochiamata la semplice telefonata, che crea molta più intimità e concentrazione sul mondo interno ed è molto meno soggetta ad interferenze di ordine tecnico o ambientale.

A questo punto sarei giunto a termine della mia relazione, prima però di congedarmi vi invito a guardare questa diapositiva che sinteticamente rappresenta la differenza tra una mente distratta e una presente.


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